Cina:

L'espulsione del sottoproletariato dalle metropoli



Di ELI FRIEDMAN

La campagna cinese per espellere i lavoratori migranti da Pechino è concepita per ricavare un maggiore profitto dalle aree urbane e per riservare le città alle élites.


Il diciotto novembre del 2017 un incendio nei sobborghi di Pechino ha ucciso 19 persone fra cui 9 bambini. Gli affitti stellari richiesti nel centro della metropoli hanno spinto molti lavoratori- specie quelli migranti senza permesso di soggiorno – a stabilirsi in alloggi mal costruiti, affollati e privi delle misure di sicurezza previste dalle norme, preparando così il terreno a questa strage annunciata.

Condizioni di vita pericolose, pendolarismo spropositato ed esposizione a rischi per la salute sono semplicemente il prezzo che i migranti impoveriti devono pagare per avere accesso al fiorente mercato urbano del lavoro.

Dopo l'incendio, la giunta cittadina Pechino, quasi certamente di concerto con il governo centrale, ha colto la palla al balzo. Nel giro di pochi giorni ha lanciato una campagna di 40 giorni per individuare e colpire le violazioni della sicurezza degli edifici. Ma il vero scopo dell'intervento si è rivelato molto presto: liberare il territorio urbano dalle persone considerate estranee a esso.

Le attuali espulsioni sono coerenti con le politiche cinesi che ormai da lungo tempo disumanizzano ed escludono i lavoratori migranti. Inoltre ripulire Pechino da questa popolazione libererà anche molti spazi da utilizzare per scopi più remunerativi, aggiungendo altre motivazioni per il bilancio della città affamato di nuove entrate.

Il risultato di questa campagna è stato che la tragedia si è presto trasformata in una catastrofe di più larga scala organizzata dallo stato, per cui decine di migliaia di persone hanno dovuto affrontare espulsioni, sequestri e la perdita dell'alloggio proprio quando l'inverno si sta avvicinando. Le immagini delle demolizioni e delle file di persone estenuate che si allontanano ricordano più una città sotto assedio che una fiorente metropoli moderna. Il che non è poi così strano visto che lo stato ha dichiarato guerra alle classi meno abbienti.

Molti aspetti di questa campagna appaiono inutilmente crudeli e hanno prodotto resistenze non solo fra i migranti, ma anche fra intellettuali sensibili e altri residenti. Ma il governo ha bloccato le organizzazioni non profit e i privati che cercano di fornire alloggi e altre forme di assistenza agli sfollati. L'enfasi posta del governo sull'allontanamento delle "popolazioni di bassa fascia" ha anche provocato un'indignazione diffusa. Le autorità hanno concesso a molte persone solo poche ore per sgomberare i loro appartamenti; in molti casi hanno staccato la fornitura elettrica e quella dell'acqua potabile. Hanno perfino raso al suolo interi quartieri. La ferocia della campagna e le sue dimensioni sono state scioccanti perfino per i cittadini cinesi relativamente abituati a un apparato statale prevaricante.

A dire il vero il governo centrale ha aspettato per anni il momento giusto per colpire. Da molto tempo ormai Pechino e altre metropoli manifestano l'intenzione di migliorare la ”qualità” della loro popolazione urbana. Sebbene Pechino avesse da tempo raggiunto (e superato) il limite massimo della popolazione residente, qualcosa è cominciato a cambiare nel 2014.

In tale hanno il governo centrale ha emanato Il Piano Nazionale di Nuova Urbanizzazione (2014–2020), che fa perno sul concetto di urbanizzazione invece che su quello d'industrializzazione per perseguire un modello di sviluppo capitalistico più equilibrato e sostenibile. Il piano prescrive alle città cosiddette “extra large”, quelle con più di 5 milioni di abitanti di controllare strettamente l'incremento della popolazione. Le città più ricche come Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen saranno riservate alle “élites”, mentre la popolazione di “bassa fascia” sarà relegata nelle città di “bassa fascia”.

Per accelerare il corso di tale programma Pechino e altre metropoli hanno iniziato a rendere impossibile la vita alla classe lavoratrice migrante: revoca dell'accesso al sistema educativo dei figli, dislocazione delle aziende con più alto tasso di manodopera sempre più lontano dai centri e occasionalmente demolizione di scuole e insediamenti. L'attuale ondata di espulsioni non costituisce un nuovo approccio all'urbanizzazione, ma è l'accelerazione di un processo già in atto.

La logica politica che sottosta a questo tipo d'invertenti ha radici ancora più profonde. Fin dalla fondazione della Repubblica Popolare il Partito Comunista ha teso a trattare la forza lavoro come un qualsiasi altro elemento del processo produttivo. Nel 1957 Moa tse tung ha detto:

[La Cina] ha pianificato la produzione di fabbriche, di abiti, di tavoli, di sedie, dell'acciaio, ma non esiste una pianificazione per la produzione di esseri umani. Questa è anarchia – nessun governo, nessuna organizzazione, nessuna regola. Forse questo governo ha bisogno di un ministero speciale, il ministero al controllo delle nascite.”

Sebbene la Cina non abbia mai messo in pratica questo suggerimento di Mao, essa ha realizzato la politica di controllo delle nascite più diffusa ed efficiente del mondo. In più nel 1958 il governo centrale ha introdotto l'hukou, ossia il sistema di registrazione delle famiglie che ancorava la fornitura dei servizi sociali a una specifico luogo di residenza, rendendo di conseguenza molto difficile, se non impossibile, per i cittadini qualsiasi trasferimento di residenza senza l'approvazione delle autorità. Queste due tecniche d'intervento sociale hanno dato allo stato una ineguagliabile capacità di controllo sulla produzione e la distribuzione degli esseri umani.

Nel periodo della transizione al capitalismo, le città più prospere hanno usato questi strumenti per filtrare la loro popolazione, puntando ad accogliere la quantità e la qualità precisa della forza lavoro necessaria, per il tempo preciso di utilizzo. Un approccio che l'autore ha chiamato “urbanizzazione appena in tempo”. Il ricorso a manodopera a basso costo ha accelerato l'accumulazione di capitale, ma le élites urbane devono affrontare la contraddizione fra le due opposte sollecitazioni di prelevare ed espellere lavoratori: esse devono assicurare la disponibilità di lavoratori flessibili senza scatenare il caos sociale o spendere troppo in istruzione, sanità, alloggi e pensioni. Questa contraddizione spiega, almeno in parte, perché città come Pechino hanno ripetutamente sorpassato la loro auto imposta capacità di accoglienza. L'attuale campagna di espulsioni di massa mostra che l'amministrazione urbana è decisa a rischiare di privare il capitale di forza lavoro pur di realizzare la loro utopia di metropoli ordinata e socialmente sterile, occupata solo dalle élites. Essa dimostra anche che lo stato sta voltando le spalle ai lavoratori che dipendono da lavori a basso compenso, schierandosi invece a favore degli interessi degli immobiliaristi bramosi di ottenere maggiori profitti di quelli che possono assicurare gli affitti di case di bassa qualità.

Fin dall'inizio della campagna le imprese ad alta intensità di forza lavoro si sono affannate per cercare di mantenere i loro lavoratori a Pechino; colossi dell'e-commerce come Alibaba e JD.com hanno assegnato alloggi ai loro corrieri sfrattati. I residenti hanno iniziato a lamentare la scomparsa dei venditori ambulanti da cui si rifornivano; perfino i lavoratori che permettevano all'aeroporto di Pechino di funzionare hanno dovuto affrontare lo sfratto. I lavoratori migranti possono anche essere disprezzati come dei sottoproletari, ma la città non può funzionare senza di loro. Queste pressioni contraddittorie spingeranno lo stato a un comportamento schizofrenico e gli strati più vulnerabili della popolazione pagheranno per questa situazione.

Non c'è alcuna lezione positiva da trarre dalla morte di 19 persone e dalla perdita del tetto di decine di migliaia. Tuttavia un barlume di speranza viene dai numerosi atti di solidarietà messi in campo dai residenti. No bisogna sopravvalutare le implicazioni e le finalità di tale sostegno, poiché alcune forme d'impegno avevano le caratteristiche del paternalismo più che della solidarietà. Tuttavia mano a mano che i prezzi delle case continueranno a crescere e i salari e gli stipendi di molti lavoratori dipendenti non riusciranno più a reggere il costo della vita, la scuola sarà sempre più cara e il mercato del lavoro sempre più competitivo, un segmento di residenti ufficialmente riconosciuti potrebbe cominciare a vedere riflessi nella propria condizione alcuni dei problemi dei lavoratori migranti.

Dopotutto la protezione dello stato dalle sorprese del mercato non è più quella di una volta, neppure per chi è in possesso dell'ambita residenza a Pechino. Il mercato sta già operando in modo che milioni di persone non possano partecipare alla vita urbana indipendentemente dal loro status di residenza.





tradotto da International View Point
da Lillo Cannarozzo