Guerra in Ucraina e internazionalismo proletario


Proponiamo questo articolo dei compagni di ControCorrente a nostro parere ricco di spunti analitici che possono offrire un ottimo contributo alla comprensione della situazione geopolitica, a quella dei rapporti di classe internazionali e contribuire al dibattito nella sinistra di classe sulla guerra.


Un contributo alla discussione


di ControCorrente


A chi ci rivolgiamo?

La guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non è la prima e neanche l’unica di questo secolo, ma ha elementi che la rendono diversa da tutte le altre e che, indipendentemente dai suoi esiti militari, fanno presupporre che il suo lascito sarà duraturo e per molti versi difficilmente reversibile. Il coinvolgimento militare, economico, produttivo e propagandistico dei principali paesi imperialisti la rendono la prima guerra totale del XXI secolo ed è chiaro a (quasi) tutti che la posta in gioco non è solo qualche landa del Donbass, per quanto ricca di granaglie e minerali o qualche approdo sul Mar Nero, ma la ridefinizione di rapporti di forza per affrontare le crescenti turbolenze internazionali. E, se le radici di questo conflitto affondano nel terreno cosparso di macerie della “guerra fredda”, i suoi rami si estendono su tutto il globo, infittendosi particolarmente sul teatro del Pacifico.

È naturale che un avvenimento di questa portata apra un dibattito politico lacerante in tutti i campi, compreso quello che ha fatto dell’internazionalismo proletario la propria bandiera e uno dei suoi principali elementi costitutivi. Ed è a questo campo che soprattutto ci rivolgiamo, coscienti però che i nodi sollevati dal conflitto russo-ucraino hanno una portata molto più ampia.

Di quest’area, i movimenti e le organizzazioni che si rifanno alla storia e al lascito politico della IV Internazionale sono una parte importante anche se non l’unica e, al suo interno, la storia e i riferimenti politici comuni, già messi in crisi dal crollo dei regimi dell’Est europeo e dalla spettacolare ascesa del preteso “Stato operaio deformato” cinese alle vette della potenza imperialista, oggi si infrangono innanzi alla prova della guerra in Europa, che rende attuali dibattiti e scontri politici  fino a ieri consegnati alla storia. Per effetto di ciò, anche alcuni dei più importanti tra quei movimenti e quelle organizzazioni scivolano su posizioni di sostegno agli imperialismi americano ed europeo, scelta che non può essere giustificata dalla pur sacrosanta critica alle posizioni campiste che giustificano l’aggressione russa in nome, invece, di un “antimperialismo” a senso unico. D’altra parte la guerra non è solo il naturale sbocco della concorrenza tra capitali, ma è anche il momento in cui il movimento operaio mette alla prova la sua autonomia emancipandosi dalla tutela borghese, che è la norma nei periodi di pace. “Hic Rhodus, hic salta!” amavano ripetere Marx ed Engels in casi come questi, citando una frase di Esopo rivolta a uno spaccone che millantava d’aver fatto un grandissimo salto nell’isola di Rodi. Se sei capace, rifallo: “Qui siamo a Rodi, e qui salta!”

È una questione che coinvolge sia il merito delle argomentazioni, sia le pressioni sociali e politiche che agiscono su chi argomenta, condizionando il suo pensiero e la sua azione. Spesso poi, all’analisi si sostituisce l’invettiva, secondo la nota e ovvia considerazione che è più facile vincere agli scacchi rovesciando la scacchiera che giocando la partita.

Cerchiamo quindi di restare all’argomento seguendo il filo di un ragionamento. I sostenitori della difesa incondizionata dell’Ucraina fondano la loro posizione partendo dal fatto che si tratta di una guerra di aggressione della Russia, motivata dal nazionalismo grande russo di Putin che nega l’esistenza stessa dell’Ucraina come Stato e degli ucraini come popolo. Se così stanno le cose, l’intervento esterno degli imperialismi atlantici, sia nella guerra in corso, sia in tutta la fase che l’ha preceduta, non caratterizza il conflitto come interimperialista, ma come una lotta tra aggressore – la Federazione Russa – e aggredito, l’Ucraina. Alcuni arrivano a sostenere che questo carattere di guerra di difesa nazionale è certificato definitivamente dall’assenza di eserciti stranieri sul terreno. Certo, gli ucraini ricevono armi praticamente da tutto il mondo occidentale, Repubblica di San Marino (forse) esclusa, ma le armi, come il denaro, non hanno odore e, indispensabili per difendersi, si prendono da chi è disposto a darle. A questo punto dell’argomentazione, di solito è calato il vero asso nella manica: l’analogia con la Resistenza, che com’è noto, era rifornita, per la verità parcamente, di armi e materiali dagli Alleati, anche se gli obiettivi della prima non coincidevano totalmente con quelle dei secondi. Quindi, fanno bene gli ucraini ad accettarle, quali che siano le intenzioni e gli scopi dei donatori. Infine l’Ucraina è uno Stato democratico schiacciato dall’autocrazia putiniana: anche in questo caso, rovesciando le argomentazioni addotte dallo stesso Putin per giustificare l’invasione, riemerge il confronto con la Seconda guerra mondiale e il Dio della democrazia e dell’antifascismo è tirato per la giacca da entrambi i contendenti, ma alla fine – come sosteneva Napoleone – si può scommettere che si schiererà dalla parte che ha l’artiglieria migliore. Un quadro, terribile ma edificante, dove ci sono i buoni, gli amici dei buoni (ma che sono un po’ meno buoni), i cattivi (che sono proprio tanto cattivi) e gli indifferenti (che per questo sono un po’ cattivi anche loro). C’è però una grande assente: la lotta di classe. E non è un dettaglio.

Aggredito e aggressore

Sostanzialmente ci sono due modi per iniziare una guerra, per giunta combinabili tra loro: l’incidente e l’aggressione. Tramontati definitivamente gli appuntamenti sul campo di battaglia, quando le tensioni tra paesi o alleanze rendono il conflitto inevitabile qualcuno deve pur cominciare e lo fa utilizzando un incidente, vero o falso che sia, o attaccando l’avversario (dall’esplosione dell’USS Maine nella baia de L’Avana nel 1898 all’incidente del golfo del Tonchino nel 1964, gli USA sono incontrastati maestri mondiali in materia). Ma la vera causa della guerra sta nelle forze che danno origine alle tensioni e non nel suo formale inizio: è stato il cambiamento dei rapporti di forza tra imperialismi nell’Europa del 1914 e non la pistola di Gavrilo Princip a dare inizio al primo conflitto mondiale. Il governo italiano nel maggio 1914 non si prese nemmeno il disturbo di organizzare un incidente. Seguendo la bussola del “sacro egoismo” di Salandra, in venti giorni ruppe l’alleanza con gli imperi centrali e invase l’Austria-Ungheria: una vile pugnalata alle spalle, se avesse perso la guerra, ma, dato che in quel caso la vinse, una nobile cavalcata per liberare Trento, Trieste e Bolzano (veramente quest’ultima era Bozen, abitata da sudtirolesi di lingua tedesca, ma non andiamo a cavillare…).

Lenin irrideva queste distinzioni tra aggredito e aggressore, utilizzate dai menscevichi per giustificare il loro sciovinismo allo scoppio della Prima guerra mondiale: “Noi sappiamo che per decenni tre briganti (la borghesia e i governi dell’Inghilterra, della Russia e della Francia) si sono armati per rapinare la Germania. C’è forse da sorprendersi se altri due briganti hanno attaccato prima che questi tre abbiano avuto il tempo di ricevere i nuovi coltelli che avevano ordinato? Non è forse un sofisma cercare di mascherare con frasi sugli ‘iniziatori’ della guerra l’eguale ‘colpevolezza’ della borghesia di tutti i paesi…”1

E Trockij, nel 1918, ritornava sull’inizio della Prima guerra mondiale: “Un gruppo di cospiratori serbi aveva ucciso un membro della famiglia asburgica, il principale sostenitore del clericalismo, del militarismo e dell’imperialismo austroungarico. Utilizzando questo fatto come un benvenuto pretesto, il partito militare di Vienna ha inviato alla Serbia un ultimatum che, per la sua estrema impudenza, raramente ha trovato eguali nella storia diplomatica. In risposta, il governo serbo ha fatto delle straordinarie concessioni e ha suggerito che la soluzione della questione oggetto della disputa fosse rimessa al Tribunale dell’Aja. A quel punto, l’Austria ha dichiarato guerra alla Serbia. Se l’idea di una “guerra di difesa” ha qualche senso, certamente essa valeva per la Serbia in questo caso. Nonostante questo, i nostri amici, Lapcevic e Kaclerovic, sono rimasti saldi nella loro convinzione che la linea di azione che dovevano seguire come socialisti era quella di rifiutare al governo il voto di fiducia.”2

Nessuno, a nostra conoscenza, contesta che queste posizioni politiche fossero corrette per la situazione internazionale del 1914, ma molti obiettano che oggi la situazione è completamente diversa. A loro avviso, infatti, non siamo in presenza di una guerra interimperialista, bensì dell’attacco di un imperialismo – quello russo – contro uno Stato indipendente non imperialista – l’Ucraina – teso a negarne l’esistenza stessa. In altre parole, si tratta di una tipica lotta di difesa nazionale nella quale gli ucraini accettano l’aiuto dalla NATO come i vietnamiti accettarono quello di URSS e Cina. Un’argomentazione che regge solo se isola lo scontro militare dal contesto internazionale e dalla storia, ma che almeno ci permette di affrontare due questioni fondamentali: l’imperialismo e la questione nazionale.

L’imperialismo nel 2022

Lenin elaborò la sua teoria sull’imperialismo come fase suprema del capitalismo nel 1916 durante la Prima guerra mondiale, che proprio dell’imperialismo era la disastrosa conseguenza. Da allora è trascorso oltre un secolo, ma gli elementi che caratterizzano questa fase sono tuttora pienamente confermati. Anzi, è proprio la loro espansione all’intero pianeta a creare una situazione nuova: gli Stati nazionali, che all’epoca dell’affermazione dell’imperialismo garantivano le regole del mercato interno e avevano il monopolio degli strumenti di dominio (politici e militari), oggi sono sempre necessari, ma insufficienti a soddisfare le esigenze del capitale internazionale, che perciò si è dotato di sovrastrutture extranazionali, sia economiche sia politiche. Alleanze e trattati esistevano anche all’inizio del Novecento, ma enti come lo FMI o la NATO non sono soltanto espressione di rapporti di forza tra Stati, ma in qualche modo vivono di vita propria, con una loro politica e una loro economia, sia pure condizionate dai rapporti tra gli aderenti. Inoltre nell’odierno mondo multipolare ogni Stato è collocato all’interno di una complessa rete di relazioni e tensioni, per cui, mentre ci sono realmente classi oppresse dall’imperialismo, non ci sono Stati che possono essere definiti al di fuori di esso. Parafrasando la definizione che E.P. Thomson dava della classe: “la classe non è questa o quest’altra parte della macchina, ma il modo in cui la macchina funziona una volta che è stata messa in moto – non questo o quest’altro interesse, ma la frizione di interessi – il movimento stesso, il calore, il rumore rombante.”3, possiamo affermare che l’imperialismo oggi non è questo o quello Stato, ma è il modo in cui la macchina del capitalismo mondiale funziona. In questo modo lo Stato ucraino è pienamente inserito e la lotta politica che dal 1989 si è svolta al suo interno è il riflesso delle spinte, verso questo o quell’altro blocco imperialista, delle frazioni del capitale domestico supportate ciascuna dagli sponsor esterni, che usano il nazionalismo come clava per combattersi l’una con l’altra. Quest’uso ha come inevitabile corollario fenomeni di oppressione nazionale che, come sempre, colpiscono particolarmente i settori più poveri della popolazione, in gran parte proletari, ma il vero oggetto della contesa non è l’esistenza o meno della nazionalità ucraina, ma l’appartenenza dello Stato ucraino a questo o quel blocco imperialista. Lo scontro è strategico, sia per le risorse economiche in gioco, sia per gli equilibri geopolitici e ha una storia antica che precede lo sviluppo del capitalismo stesso, originando anche il significato del nome Ucraina, letteralmente “terra di confine”, incastrata tra le placche tettoniche slava, tedesca e ottomana in perenne scontro tra loro.

In questa guerra però non si giocano solo le sorti dell’Ucraina. Anzi, applicando il metodo che Ernest Mandel utilizzò per analizzare la Seconda guerra mondiale4, individuando in essa ben cinque guerre diverse combinate tra loro, possiamo sostenere che dietro i combattimenti nel Donbass e dintorni si stanno consumando diverse guerre, alcune delle quali, per ora, solo economiche e politiche, ma preludio probabilmente di grandi scontri militari futuri.

Causa scatenante è senz’altro il disperato tentativo dell’imperialismo russo d’invertire il corso del suo storico declino con l’uso della forza. In lineare continuità con il modus operandi del capitalismo di Stato sovietico (Berlino 1953, Budapest 1956, Praga 1968), Putin utilizza i carrarmati per trattenere pezzi dell’ex blocco orientale in fuga verso Occidente. È una scelta di forza dettata dalla debolezza e per questo rischia di accentuare ciò che vorrebbe evitare: alcune avvisaglie di questo si cominciano a vedere, come la malcelata irritazione del governo cinese (che avrà senz’altro un prezzo per Putin) o la presa di distanza non scontata di alcuni ex vassalli centroasiatici.

Questo s’inserisce nello scontro tra USA e Cina. Nella quasi ineluttabile prospettiva di essere sorpassati dal gigante asiatico entro una quindicina di anni, gli Stati Uniti mettono in atto tutte le misure per isolare Pechino da un lato e rafforzare le proprie alleanze dall’altro, anche in vista di un possibile scontro diretto: il compattamento, rafforzamento e allargamento della NATO, la creazione dell’AUKUS nel Pacifico, l’indebolimento della Russia e un clima di tensione internazionale che non favorisce certo l’allargamento “silenzioso” dell’imperialismo cinese (che in Ucraina ha grossissimi interessi in investimenti e scambi commerciali), vanno tutti in questo senso e la crisi ucraina capita, o è stata fatta capitare, a proposito.

In questo quadro si giocano anche i rapporti tra USA ed Europa, perché i primi hanno senz’altro bisogno di alleati più forti, ma certamente non di un concorrente più forte sul mercato internazionale, e l’imperialismo europeo, pur con tutte le sue contraddizioni, è di fatto il terzo incomodo nello scontro con la Cina. In un momento di debolezza politica del gruppo dirigente europeo (Scholz non è Merkel, Macron non è De Gaulle e Draghi invece è Draghi, anzi, lo era), la guerra indebolisce economicamente la UE e soprattutto la Germania, minandone la coesione interna. È vero che lo shock del conflitto ha portato almeno al 2% del PIL le spese militari di ciascun membro, ma, con questi presupposti, anche il progetto di difesa comune europea diventa problematico perché, se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, prima di pensare alla guerra occorre avere una politica, mentre la UE ne ha diverse, cioè nessuna. Di fronte al modello di difesa europea delineato nel Trattato del Quirinale – una forza d’intervento autonomo per garantire i propri interessi sotto l’ombrello difensivo della NATO – si sta delineando una super NATO, che include anche paesi dell’ex Patto di Varsavia (la Polonia ha approvato un piano di riarmo che va ben oltre al 2% del PIL) e che, in stretto accordo con Washington e Londra, cerca di affrancarsi dall’asse Roma-Parigi-Berlino, in vista di una futura guerra – fredda o calda che sia – sul confine orientale.

Infine c’è lo sgomitare delle potenze regionali, come l’Arabia Saudita, Israele, Egitto e Turchia, per ampliare le loro zone d’influenza e aumentare il loro potere contrattuale sullo scacchiere internazionale. La Turchia soprattutto si muove spregiudicatamente su più piani, mettendo a frutto la sua posizione strategica e la sua forza militare per ricavarne vantaggio nei confronti di avversari e alleati. Non bisogna infatti dimenticare che la guerra russo-ucraina, non solo non annulla i conflitti in corso (Yemen, Siria, Libia, Palestina) ma ne acuisce le tensioni a partire da quelle legate al controllo delle fonti energetiche e delle vie commerciali.

La matrioska delle nazioni oppresse

La negazione del carattere interimperialista della guerra di solito fa il paio con quella che la delimita al solo tentativo – pur reale – di negare e annullare la nazionalità ucraina da parte di un imperialismo sciovinista. C’è una parte di verità in questa affermazione: l’ideologia del blocco dominante russo capeggiato da Putin è veramente la quintessenza dello “sciovinismo centonero grande russo” stigmatizzato e combattuto da Lenin. Anzi, il discorso di Putin alla vigilia dell’invasione è stato un’esposizione da manuale di tutti i luoghi comuni sciovinisti che in passato puntellavano il potere dello zar di tutte le Russie, antibolscevismo compreso. Mancava solo qualche accenno antisemita per avere il campionario completo, ma diamo tempo al tempo…

Lotta contro l’oppressione nazionale e autodeterminazione delle nazioni non sono però la stessa cosa – anche se spesso sono collegate – e su questo occorre chiarirci.

I comunisti sono sempre e ovunque contro l’oppressione di una nazionalità da parte di un’altra, così come sono per la fine di tutte le forme di oppressione umana, che è poi lo scopo ultimo della loro azione. Ma all’autodeterminazione nazionale, ovvero al processo di formazione di Stati nazionali indipendenti si rapportano cercando di favorire l’instaurarsi delle condizioni migliori in cui la classe operaia possa accumulare e dispiegare la sua forza per condurre lo scontro con il capitale. Per Marx ed Engels i processi di unificazione di Germania e Italia andavano favoriti non in base a un astratto “diritto” all’autodeterminazione, ma perché definivano la creazione di due grandi settori di classe operaia che potevano collegarsi con quelli di Francia e Inghilterra creando così le basi concrete per lo sviluppo dell’internazionalismo proletario, e la stessa oppressione dell’Irlanda da parte della corona inglese era vista come un ostacolo, da eliminare, allo sviluppo della lotta di classe nelle due nazioni. Per questo settori di borghesia nazionale che lottavano per l’indipendenza avevano un ruolo progressivo e diventavano possibili, sia pur temporanei, alleati. Per lo stesso motivo gli elementi più radicalizzati di questi settori praticavano quello che possiamo definire un “internazionalismo della liberazione nazionale”, partecipando alle lotte di altri popoli, come successe per l’Italia, la Grecia, l’Ungheria e, nella guerra franco-prussiana del 1871, per la Francia. Non a caso, diversi tra loro furono, a processi d’unificazione conclusi, tra gli antesignani del movimento operaio nei loro paesi.

Ma Marx ed Engels, sapendo che i processi d’unificazione erano trainati dallo sviluppo del capitalismo e non da evanescenti affinità elettive basate su lingua, usi o tradizioni, si guardarono bene dal dare credito alle ideologie nazionaliste sparse a piene mani dai bardi delle nazionalità più o meno oppresse, cosa che purtroppo non hanno fatto gran parte dei loro presunti epigoni. Perché l’epoca delle lotte nazionali è stata anche quella dell’invenzione delle nazionalità e delle loro tradizioni, ma la storia mal si presta a tracciare linee nette all’interno delle quali collocare un popolo che parla la stessa lingua e pratica gli stessi costumi, e così, dove non arrivavano in soccorso la storia si è ricorsi al mito: l’età nella quale la liberazione nazionale si trasforma in nazionalismo è piena di  storie nazionali inventate di sana pianta come la tradizione scozzese, kilt incluso, che Hugh Trevor-Roper dimostra essere stata elaborata nel corso dell’Ottocento da fantasiosi intellettuali locali.5

Nell’età dell’imperialismo, iniziata negli ultimi decenni del XIX secolo, la questione nazionale assume contorni nuovi e più complessi: da un lato rimane aperta per gli immensi domini coloniali degli imperialismi europei, e dall’altro concerne anche la definizione di entità nazionali statali nel corso della dissoluzione di imperi precapitalistici come quelli austroungarico, ottomano e zarista. Ma, nell’epoca che George Mosse definì giustamente della “nazionalizzazione delle masse”, nei paesi imperialisti il nazionalismo si trasformava rapidamente da riflesso ideologico dell’unificazione del mercato capitalistico interno a supporto dell’aggressività verso i nuovi mercati da conquistare. Un nazionalismo imperialista che coinvolgeva, oltre che la grande borghesia, anche la piccola borghesia e ampi settori di aristocrazia operaia nel fenomeno che John Atkinson Hobson definì “gingoismo”6, cioè lo sciovinismo filoimperialista di massa diffusosi nelle metropoli europee e nord americane.

È in questo oceano, sempre più insidioso, che il nuovo Stato sovietico e l’Internazionale comunista dovettero navigare, cercando di contrapporre le spinte nazionali all’iniziativa dell’imperialismo nel quadro di una strategia internazionalista. Per la Russia dei soviet si trattava non solo di dare una risposta a popolazioni da secoli oppresse dall’egemonia grande russa, ma di impedire anche che le loro istanze, spesso conservatrici, si saldassero con gli avversari “bianchi” nella guerra civile7 o si coagulassero in movimenti indipendentisti etnico-religiosi, come quello panturanico dei Basmachi, pericolosi per l’esistenza stessa dello Stato sovietico per la loro naturale attrazione verso il nascente nazionalismo turco. Inoltre, che l’autodeterminazione nel corso della situazione rivoluzionaria postbellica non fosse già più una questione d’indipendenza nazionale tout court, ma un terreno di scontro con l’imperialismo lo dimostra l’utilizzo dei “Quattordici punti” del presidente USA Thomas Woodrow Wilson nel corso della definizione dell’assetto europeo, che portò alla formazione di una cintura di Stati nazionali su base etnica, “indipendenti” formalmente, ma in realtà legati mani e piedi alle potenze alleate, in funzione di cintura di contenimento della Rivoluzione d’ottobre: Finlandia, Polonia, Cecoslovacchia, ecc.

Per l’Internazionale comunista, fondata nel 1919 quando oramai il riflusso dell’ondata rivoluzionaria in Occidente era iniziato, la questione nazionale è stata soprattutto centrata sull’elaborazione di una strategia in grado di collegare le lotte proletarie nelle metropoli imperialiste con i movimenti anticoloniali asiatici. Non quindi l’affermazione astratta di un principio, ma l’articolazione di una strategia rivoluzionaria concreta basata sull’analisi della fase attraversata dal capitalismo. Una strategia che, per i partiti comunisti dei paesi coloniali e semicoloniali, coniugava la lotta comune con organizzazioni rivoluzionarie borghesi contro il colonialismo e l’indipendenza politica e organizzativa di un partito di classe. Basta scorrere la lista dei partecipanti al Congresso dei popoli d’Oriente tenutosi a Baku nel settembre 1920 e al meno noto Primo congresso dei comunisti e delle organizzazioni rivoluzionarie dell’Estremo Oriente del gennaio 1922 per rendersi conto dello sforzo fatto dall’Internazionale comunista per ricoprire di muscoli e sangue lo scheletro della sua impostazione strategica. Quanto questo compito sia stato difficile lo dimostrano numerosi esempi, a partire da quello della rivoluzione cinese nel 1926-’27, dove la rottura dell’alleanza con il Partito comunista cinese da parte del Kuomintang portò al massacro di gran parte delle avanguardie operaie a Canton e a Shanghai.

E oggi? Le vecchie colonie si sono trasformate in mercati per un imperialismo che ha conquistato il mondo, integrando al suo interno, sia pure a livelli diversi, le loro borghesie nazionali, prive oramai di ogni spinta rivoluzionaria. L’obiettivo di una piccola patria felice e indipendente è oramai l’utopia reazionaria comune a settori piccolo-borghesi di molti paesi che, schiacciati dal grande capitale internazionale, sognano di aprire la loro bancarella nell’immenso suk planetario, sulla quale offrire lavoro a basso costo ed esenzioni fiscali allo stesso capitale che le opprime, in concorrenza con le bancarelle accanto. Ciò non vuole dire che non esistano ancora problemi nazionali aperti, ma che questi non possono essere risolti nel quadro del sistema capitalista, attraverso l’alleanza del proletariato con la propria borghesia nazionale. Nell’attuale contesto internazionale, può esistere, per esempio, uno Stato palestinese, se intendiamo con questo termine un’entità anche solo parzialmente autosufficiente, o potrà essere solo un simulacro di autorità che sopravvive con il beneplacito d’Israele e dell’imperialismo e la carità pelosa delle borghesie arabe?

Ma torniamo all’Ucraina. Può esistere un’Ucraina indipendente (qualsiasi cosa voglia dire oggi questo aggettivo nella rete attuale delle relazioni economiche e politiche tra Stati)? Oppure la vera scelta è quella tra legarsi a un imperialismo arretrato come quello russo o quelli, senz’altro più sviluppati europeo e statunitense? È comprensibile che la borghesia ucraina propenda in maggioranza per l’Europa e per gli USA, così com’è altrettanto comprensibile che lo facciano anche ampi settori del proletariato, attratti dai salari occidentali, senz’altro più alti di quelli russi, ma si tratta di scegliere tra due imperialismi e non di affrancarsi da loro.

Il governo dell’Ucraina inoltre ha chiesto di entrare nella NATO, alleanza militare il cui espansionismo si è paradossalmente accentuato proprio dopo la fine della “guerra fredda”, creando così le condizioni per una reazione russa, peraltro messa nel conto. Noi saremmo un po’ all’antica, ma rileviamo una notevole differenza tra appoggiare l’autodeterminazione di un popolo e appoggiare un governo borghese nelle sue manovre per aderire a un’alleanza militare imperialista.

Inoltre, per i sostenitori dell’autodeterminazione come principio assoluto si apre anche un altro problema. Come abbiamo già scritto, l’Ucraina è una terra dalla storia travagliata, con un articolato legame con la Russia e nella quale circa il 78% della popolazione è ucrainofona e il 17% russofona, più altre etnie minori. Sono dati da prendere con le pinze, se si considera che, data la vicinanza filologica tra le due lingue e le complesse vicende storiche, non necessariamente c’è un’identità tra idioma usato abitualmente e gruppo etnico in cui ci si riconosce. Ma, ammettendo che quasi un quinto della popolazione si consideri russo e che questo quinto sia in maggioranza concentrato nelle regioni orientali, non vale anche per questo gruppo il diritto all’autodeterminazione? Diritto che, a maggior ragione, va riconosciuto agli abitanti della Crimea, annessi all’Ucraina nel 1954 per decisione di Nikita Chruščёv, ma che, in tempi non sospetti, hanno in grande maggioranza espresso la volontà di non essere considerati ucraini8. Per rimanere in zona, il criterio astratto dell’autodeterminazione assomiglia alla matrioska: una bambola che ne contiene una più piccola, che a sua volta ne contiene un’altra ancora più piccola…

La guerra

A questo punto un nostro interlocutore ci potrebbe interrompere dicendo: “Si può essere d’accordo o meno con ciò che sostenete, ma il problema vero è un altro: la guerra. Perché in Ucraina c’è una guerra vera, con tutte le atrocità che alla guerra si accompagnano, ed è stata iniziata da Putin ed è sul territorio ucraino. Quindi: che fare?”

È vero. Ma per sapere che fare occorre capire che guerra si sta combattendo, quali sono le reali forze in campo e, soprattutto, cos’è oggi la guerra.

Qualche bello spirito – ce ne sono anche nel campo delle forze che si richiamano al trotskismo – sostiene che la guerra non è interimperialista perché non ci sono soldati della NATO, degli USA o di altri paesi imperialisti che combattono sul terreno. A parte la facile considerazione che le retrovie di entrambi i contendenti (ma soprattutto quelle ucraine) sono oramai un camping internazionale per esperti militari e contractor da tutto il mondo, il dato fondamentale è che il concetto di “terreno” non ha più alcun senso quando si affronta una guerra ad alta intensità tra eserciti moderni. La guerra è uno specchio della società nella quale avviene e in un mondo globalizzato, interdipendente e ad alta concentrazione di capitale non può che avere anch’essa queste caratteristiche. Anche l’arma più tradizionale, per esempio il cannone pesante, senza un sistema di posizionamento e navigazione satellitare che ne indirizzi il tiro e senza un adeguato supporto informatico per calcolare le traiettorie dei proietti, è un oggetto utilizzabile solo per le parate e oggi solo USA, Russia, Cina ed Europa (in parte) hanno reti di satelliti che coprono l’intero pianeta. La guerra del 1914-’18 è stata definita “totale” perché non coinvolgeva soltanto il fronte e le retrovie, ma anche il resto della società, intendendo però soprattutto la società di ogni singola nazione. Oggi, le filiere di finanziamento, approvvigionamento, tecnologiche e di raccolta e gestione delle informazioni, sono tutte su scala multinazionale e fuori della portata della stragrande maggioranza di singoli paesi, anche se industrializzati come lo è l’Ucraina. Anzi, elemento ancora più significativo, anche gli apparati militari statali sono costretti a integrare le proprie strutture con quelle del capitale privato, sia a livello operativo (la Wagner dei russi), sia per quello dell’acquisizione e gestione dei dati (la Starlink di Elon Musk per gli ucraini). Le stesse alleanze, come ad esempio NATO e AUKUS, sono ben più di accordi di mutua assistenza militare, ma coinvolgono apparati industriali, sviluppo di tecnologie, standardizzazione, investimenti… Anche per tutti questi motivi la guerra è interimperialista semplicemente perché non può che essere tale. E sempre per gli stessi motivi è totale perché dissolve i confini tra i campi militare e civile. Le sanzioni, gli attacchi informatici, la raccolta ed elaborazione dei dati sono a tutti gli effetti operazioni militari e concordiamo con quanto scrissero già nel 1999 i colonnelli dell’Aviazione cinese Qiao Liang e Wang Xiangsui: “Se oggi un giovane richiamato alla guerra dovesse chiedere: ‘Dov’è il campo di battaglia?’, la risposta sarebbe: ‘Ovunque.’”9

Il mito della Resistenza

A questo punto però, ci si potrebbe rispondere: “Anche la Seconda guerra mondiale era una guerra interimperialista. Ma la Resistenza accettò l’aiuto militare degli Alleati per sconfiggere il nazifascismo. E la stessa cosa sta oggi succedendo in Ucraina”

È una considerazione che merita di essere presa sul serio, e per farlo occorre entrare un po’ nei particolari.

Intanto iniziamo col dire che, se si prende in considerazione l’intero secondo conflitto mondiale, è più corretto parlare di Resistenze, al plurale, perché i movimenti di opposizione armata al nazifascismo ebbero caratteristiche diverse per ogni paese in cui si svilupparono. Non solo, ma anche all’interno di ciascun paese, spinte sociali o impostazioni politiche differenti spesso diedero origine a movimenti indipendenti, a volte in collaborazione tra loro (Francia, Italia), ma altre volte in aperta ostilità reciproca, anche mentre combattevano il nemico comune (Polonia, Jugoslavia). In numerosi casi – non in tutti – questi movimenti non erano la diretta espressione di governi nazionali in esilio, ma rappresentavano invece istanze sociali autonome o, comunque, il legame con il governo del paese era reso precario dal fatto che quest’ultimo non aveva più il monopolio della violenza sul territorio: sono i casi, per esempio, dell’Italia del Nord, della Grecia o della Jugoslavia. Tali movimenti ricevevano armi – non molte e quasi sempre leggere – dagli Alleati nella misura in cui questi li consideravano utili al loro sforzo bellico. Ma le ricevevano in cambio della loro subordinazione, non solo alle direttive militari alleate, com’era ovvio, ma anche al quadro geopolitico scaturito dagli accordi presi durante le conferenze interalleate: quali che fossero gli obiettivi che ciascuna formazione partigiana si proponeva, la sua azione e la sua stessa esistenza doveva conformarsi al quadro stabilito dai “tre grandi”. Non a caso il disarmo immediato delle formazioni partigiane dopo la liberazione e il loro scioglimento fu un compito al quale i comandi alleati si dedicarono con particolare solerzia,10 perché aveva una valenza strategica per il controllo dell’assetto postbellico e, dove non andò a buon fine, come nel caso della Grecia, la repressione fu spietata. Lo sapeva bene Togliatti – una delle teste pensanti dello stalinismo internazionale – che, con la sua “svolta di Salerno”, rinunciò persino alla pregiudiziale antimonarchica, conscio che la Resistenza non avrebbe avuto una decisiva voce in capitolo per mutare gli equilibri sociali, politici e istituzionali in un’Italia che gli accordi di Jalta avevano assegnato al campo occidentale. Su questa dura realtà nel dopoguerra sono fioriti a sinistra i miti della “Resistenza tradita” e della “rivoluzione mancata”, ma, si sa, anche i miti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni…

La situazione in Ucraina è completamente diversa. In questo caso si tratta dello sforzo bellico di uno Stato invaso, le cui strutture militari ricevono tutta l’assistenza necessaria da un’alleanza militare di Stati imperialisti – la NATO più alcuni Stati che formalmente non ne fanno ancora parte come la Svezia – per essere messe in grado di resistere all’invasione. Crediamo che nessuno sia in grado di quantificare l’incidenza della resistenza popolare contro l’esercito russo, ma il dato che oltre l’80% dei corazzati russi siano stati distrutti dall’artiglieria pesante la dice lunga sulle caratteristiche predominanti in questa guerra, che non è una “guerra di popolo”, bensì uno scontro di apparati militari strutturalmente simili. Quindi non si tratta di ricevere armi da chi le produce e le possiede, per usarle oggi contro l’esercito invasore e domani contro gli oligarchi amici di Zelensky (fratelli gemelli di quelli amici di Putin), come farebbero benissimo ad accettare formazioni militari classiste presenti in Ucraina (e noi speriamo che ve ne siano). Si tratta invece del “normale” supporto militare e politico di un blocco militare imperialista a un proprio alleato in guerra contro un altro imperialismo. Supporto militare di un’entità tale che rende ridicolo qualsiasi paragone con gli aviolanci di armi leggere ai partigiani durante la Seconda guerra mondiale: oltre un certo livello la quantità diventa qualità.

D’altra parte, anche se ritorniamo nel campo delle lotte di liberazione nazionale, gli esempi storici non mancano: nella sua lunga lotta contro il dominio inglese l’IRA accettò armi dal Kaiser tedesco e, con l’insurrezione di Pasqua 1916, approfittò persino del fatto che il Regno Unito era impegnato nella Prima guerra mondiale per tentare di prendere il potere, ma il suo obiettivo era di proclamare la Repubblica d’Irlanda e non quello di allearsi con gli Imperi centrali contro l’Inghilterra: la “Pasqua di sangue” fu una grande sconfitta, ma l’indipendentismo irlandese sopravvisse al primo conflitto mondiale e riuscì a ottenere una (parziale) indipendenza. Al contrario, il “Governo dell’India Libera” di Subhas Chandra Bose durante la Seconda guerra mondiale, sempre per combattere l’imperialismo inglese, si alleò militarmente con il Giappone e ne condivise così la sconfitta.

E noi?

Ciò che colpisce, scorrendo molte prese di posizione “interventiste” sulla guerra è, oltre al merito, il linguaggio e l’apparato concettuale che le sorregge. Quasi ovunque il proletariato scompare sostituito dal popolo, anzi dai popoli, che all’Est si sentirebbero più sicuri sotto l’ombrello della NATO. Talvolta i governi borghesi diventano persino i “nostri governi” ai quali fare perentorie richieste, mentre sono visti con fastidio i tentativi d’inserire il conflitto in atto all’interno del più ampio scontro tra imperialisti.

Mutamenti di concetti e di linguaggio che hanno le loro radici nel cambiamento del riferimento sociale: la piccola borghesia, soprattutto nei suoi settori “intellettuali” e urbani, che oggi nei paesi europei è la vera base sociale di una sinistra alla quale anche gruppi che si pensano rivoluzionari rivendicano l’appartenenza. Una base sociale che influenza pesantemente la percezione della realtà e la condotta politica, rendendo l’internazionalismo uno sfondo sentimentale e non un’indicazione strategica e adeguandosi progressivamente all’imperialismo europeo. Non è una storia nuova: la mancanza d’autonomia politica porta inevitabilmente a cercare tra i contendenti imperialisti il “meno peggio”. In fondo nell’UE abbiamo il welfare generalizzato, i sindacati sono legali, vige lo stato di diritto, ecc. Perché dunque non adottare anche gli strumenti (difensivi, ça va sans dire!) per salvaguardare queste, che sono anche e soprattutto conquiste dei lavoratori? Un discorso coerente se fatto da un socialdemocratico che vede l’Europa come l’estensione del patto sociale vigente nel proprio paese ed è abituato a contrattare la quantità di briciole che il capitale domestico lascia cadere dal tavolo. Lo è molto meno per una sinistra che cade dal pero quando le prime ministre di Svezia e Finlandia, entrambe socialdemocratiche e a capo di paesi modello nella cura dei diritti e delle tutele, con un cinismo degno di un dittatore sudamericano, contrattano l’ingresso nella NATO dei propri paesi con il padre-padrone della Turchia Erdogan sulla pelle dei curdi che si sono rifugiati nei loro paesi. Niente di cui scandalizzarsi: insieme al satrapo di Ankara fanno semplicemente il loro mestiere di funzionari dell’imperialismo. Ma, per favore, evitateci almeno la favola del diritto all’autodeterminazione dei popoli garantito dall’ombrello della NATO!

Per ritrovare il bandolo della matassa occorre ripartire dalla situazione che abbiamo di fronte oggi in Europa mettendo a fuoco alcuni problemi.

Il primo e più generale è quello che ci troviamo in un lunghissimo periodo di assenza di crisi rivoluzionarie. Nei paesi dell’Europa occidentale nessun vivente ha partecipato a un’esperienza rivoluzionaria e anche quelli che hanno vissuto le lotte della fine degli anni Sessanta del Novecento sono oramai anziani. Il corpo sociale oggi attivo si è quindi formato in un’epoca di assoluto predominio del capitale e delle sue ideologie e ne ha interiorizzato e assimilato i contenuti. Una situazione quindi che rende centrale una battaglia a tutto campo contro ogni manifestazione del dominio capitalista e la guerra ne è una delle principali.

Il secondo è che l’equilibrio successivo alla Seconda guerra mondiale si è definitivamente rotto e abbiamo di fronte un periodo di forti turbolenze internazionali nei confronti delle quali sarà fondamentale mantenere la barra del timone sull’indipendenza di classe. La guerra russo-ucraina non è ancora finita e già si alza la temperatura intorno a Taiwan e se, forse, i tempi di uno scontro nel Pacifico non sono ancora maturi, le ragioni del conflitto sono già tutte in campo e, anche a migliaia di chilometri di distanza, i lavoratori sentono sul collo il fiato di una propaganda che li vorrebbe arruolati contro la Cina, come quelli cinesi contro l’Occidente.

Il terzo è che la guerra avrà (e già ha) conseguenze pesanti sulle condizioni di vita dei lavoratori anche dei paesi non direttamente coinvolti (indirettamente lo sono tutti), causando tensioni sociali sulle quali occorre già da ora intervenire. I nostri avversari hanno già ripescato la storica alternativa tra burro e cannoni, dove il burro va inteso come sanità, scuola, salari, pensioni, ecc. e i cannoni… come cannoni. È un’alternativa che esige una risposta chiara, senza arrampicamenti sugli specchi attaccati ai “ma anche”.

Il quarto è che ci troviamo di fronte a una crisi di direzione della borghesia senza precedenti: i suoi apparati politici sono oramai privi di credibilità agli occhi dei lavoratori e anche di ampi settori della borghesia stessa. Il personale politico è oramai reclutato negli uffici delle banche (quando va bene), nei talk show televisivi o nell’avanspettacolo (e quest’ultima, in Ucraina come in Italia, non è una metafora). Le stesse istituzioni borghesi, idealizzate e difese a oltranza da una “sinistra” alla canna del gas, a ogni elezione sono travolte dalla marea montante dell’astensionismo che, pur non essendo di per sé un sintomo di presa di coscienza di classe, è comunque il segno della mancanza di fiducia di ampi settori della popolazione – soprattutto proletari – nelle magnifiche sorti progressive della democrazia borghese.

L’ultimo infine è una questione di metodo. Di fronte a un evento come la guerra scatta il riflesso condizionato di “prendere una posizione” – contro l’invasione, contro Putin, contro la guerra in generale… – come se ciò potesse, anche minimamente cambiare, qualcosa nel corso degli avvenimenti. Ma la guerra è connaturata al sistema in cui viviamo e non un “accidente” che possiamo evitare attraverso l’esercizio della volontà. Possiamo – e dobbiamo – invece muoverci e agire sulla base delle nuove condizioni che la guerra determina, partendo dal “qui e ora”, cioè dalla nostra condizione sociale materiale di militanti e lavoratori di un paese imperialista che nella guerra è implicato. Non si tratta di rivendicare una pilatesca equidistanza tra i contendenti, come se il conflitto non ci riguardasse, ma, al contrario, di partire dal punto di vista dell’indipendenza di classe per capire quali sono gli interessi dei lavoratori che nella guerra sono coinvolti.

Per tutti questi motivi, e pure coscienti della complessità della situazione, pensiamo sia centrale focalizzare l’intervento sulla denuncia del carattere imperialista della guerra. Nessuna ambiguità sul carattere controrivoluzionario del gruppo dirigente russo e sulla natura borghese e imperialista del suo Stato, ma anche altrettanta nessuna ambiguità sul carattere imperialista del blocco che alla Russia si contrappone e del quale il governo di Kiev è solo la punta avanzata. Non sottovalutiamo gli orrori dell’invasione russa dell’Ucraina, ma sono gli orrori di ogni guerra, anche di quelle a cui il caravanserraglio mediatico imperialista non presta la medesima attenzione o, peggio, nasconde sotto il tappeto per propria convenienza.

È difficile dire oggi che il nemico è in casa nostra, ma lo è sempre stato, nel 1914 come nel 1939. Pure è profondamente vero e per questo assolutamente necessario se si vuole tenere aperto almeno uno spiraglio a una prospettiva rivoluzionario e per questo dobbiamo dirlo anche oggi: il nemico non è sul fronte del Donbass, ma è in casa nostra.

Qualcuno ha evocato la necessità di una “nuova Zimmerwald” per chiamare a discutere sulla guerra e sulle prospettive dell’internazionalismo. La formula può sembrare pretenziosa, viste le enormi differenze che ci separano da quell’epoca e soprattutto l’enorme divario in termini di elaborazione politica e insediamento sociale tra le organizzazioni marxiste rivoluzionarie di allora e le attuali. Tuttavia pensiamo che oggi questa discussione vada affrontata e questo nostro contributo è un tentativo di rispondere a ciò che realisticamente ci pare possibile fare nel contesto concreto: delimitare un campo di forze con cui si condivida un approccio internazionalista fondato sull’indipendenza politica dei lavoratori. Le divergenze emerse di fronte al conflitto russo-ucraino anche con forze che provengono dalla stessa tradizione infatti non rappresentano, a nostro avviso, semplici differenze di analisi su un tema pur importante come la guerra, bensì il frutto di visioni del mondo alternative che, come abbiamo detto, riflettono punti di vista sociali e dunque anche prospettive politiche a lungo termine diverse.


Note

1 V. I Lenin, I Südekum russi, Sotsial-Demokrat, n. 37, 1° febbraio 1915. In Opere complete, vol. XXI, Roma, Editori Riuniti, 1966. Le sottolineature sono di Lenin.

2 L. D. Trockij, Il bolscevismo dinnanzi alla guerra e alla pace nel mondo, Milano, Avanti!, 1920

3 E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Il Saggiatore, 1969, vol. II pag. 412

4 Ernest Mandel, Il significato della II guerra mondiale, Roma, Puntocritico, 2021

5 Hugh Trevor-Roper, L’invenzione della tradizione. La tradizione delle Highlands. In, Eric J. Hobsbawm, Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987

6 John Atkinson Hobson, Il gingoismo, Milano, Feltrinelli, 1980

7 “La fortuna dei bolscevichi [nella guerra civile] sta tuttavia nel fatto che i capi militari bianchi osservano ovunque nei confronti dei movimenti nazionali un atteggiamento risolutamente ostile”. Hélene Carrère D’Encausse, Communisme et nationalisme, in Revue française de science politique, n. 3, 1965

8 Durante il processo d’indipendenza dell’Ucraina, il 20 gennaio 1991, un referendum sul ristabilimento o meno della Repubblica socialista autonoma di Crimea, soppressa da Stalin nel 1945, registrò una partecipazione dell’81,37% e il 94,3% di sì. Cfr. Gérard-François Dumont, L’Ukraine, une terre étrangère pour la Russie?, in Géo, n. 43 del 25/01/2014

9 Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2001

10 Cfr. Olivier Wieviorka, Storia della Resistenza nell’Europa occidentale, Torino, Einaudi, 2018