Da Jacobin Italia

Primum vivere

Sembra più possibile una Terza guerra mondiale che una rivoluzione. 
Appunti di fronte alla crisi del vecchio ordine internazionale

Da quando è cominciata l’invasione dell’Ucraina una discussione si è sviluppata sui social network che hanno avuto la funzione positiva di far emergere preoccupazioni e opinioni assenti da quotidiani e televisioni. L’effetto è stata la creazione nello stesso movimento contro la guerra di due punti di vista abbastanza coerenti nelle premesse e nelle conclusioni. La cosa che immediatamente colpisce è che la discussione non ha unito e diviso secondo collocazioni precedenti ma ha in un certo senso rimescolato le carte. Stranamente per persone che hanno parlato fino al giorno prima lo stesso linguaggio, è diventato problematico anche intendersi tra accuse di filo-putinismo o di implicita accettazione della Nato. Le difficoltà a intendersi tra le due anime del movimento contro la guerra derivano anche dal fatto che le rotture, le svolte, logorano ciò che avevamo imparato nel corso degli anni. 

Il problema principale è che oggi non c’è da capire una guerra soltanto. In sé questa non è una novità perché spesso le guerre maggiori, per implicazioni e violenza, risultano dal precipitare nello stesso buco nero di interessi e moventi. In Ucraina si stanno combattendo almeno due guerre, che bisognerebbe riconoscere e conoscere nella loro specifica natura.  

La «prima» è quella che si vede ogni giorno in televisione, a cui bisogna credere indipendentemente da quanto questo o quell’episodio sia vero o costruito. Si vede un paese martoriato a cui per decenza bisognerebbe concedere almeno la solidarietà di una condanna dell’aggressore, possibilmente non una condanna solo formale che serva a salvarsi l’anima per poi insistere sulle colpe di Zelensky e dell’Ucraina. Non basta dire che siamo contro tutte le guerre, cosa ovviamente giusta e sacrosanta. Siamo davanti a una specifica guerra in cui i belligeranti non sono in posizione uguale, c’è un aggressore e un aggredito, a cui  qualsiasi codice etico riconosce il diritto alla legittima difesa. Anche la richiesta di armi, se viene da parte di chi in questo momento è sotto le carezze dell’aviazione russa, è legittima. Poi la «seconda guerra» vivamente sconsiglia questa strada ma è un altro discorso, da farsi solo quando si è riconosciuta la prima. 

Ma non si tratta solo di chi ha aggredito chi. Viene messo in questo momento alla prova un concetto politico che per le vecchie generazioni era quasi un dogma: il diritto all’autodeterminazione delle nazionalità oppresse. Di questo concetto è stato fatto uso e abuso perché in una civiltà che ha per simbolo il crocifisso, qualsiasi prepotente tenta di apparire la vittima. Ma se c’è una relazione in cui il diritto all’autodeterminazione ancora vale è proprio quella tra Russia e Ucraina. Sotto il dominio degli zar l’oppressione è stata particolarmente violenta e ha assunto molte delle caratteristiche tradizionali, per esempio la proibizione di pubblicare testi in lingua ucraina. Fu la rivoluzione del 1917 a riconoscere il diritto dell’Ucraina a decidere se e a quali condizioni unirsi alla Russia sovietica. Putin a suo modo gliene ha riconosciuto il merito, quando ha attribuito a Lenin la colpa di averla separata dalle madre-patria russa. Dopo la morte di Lenin e nella vicenda successiva dell’Urss la relazione tra i due paesi è tornata a essere più simile a quella dei tempi dello zar che a quella auspicata dalle rivoluzionarie e dai rivoluzionari del 1917. Un’ultima osservazione sul tema: nessun aggredito perde il diritto all’autodeterminazione per le sue malefatte. L’accusa a Zelensky, che spesso si legge nei social network, di essere un guerrafondaio rovescia l’ordine logico della questione e soprattutto non è pertinente perché l’autodeterminazione non può essere un privilegio concesso solo ai virtuosi. È abitudine nota degli Stati uniti trasformare un paese in un ammasso di rovine dopo aver spiegato all’opinione pubblica mondiale quanto cattivi siano stati i suoi leader. 

Esiste però anche una «seconda guerra», molto meno visibile e che finora ha lasciato poche tracce nell’immaginazione popolare europea: la guerra della Nato, in modo particolare della sua direzione statunitense, contro la Russia. Non è facile farsi un’idea di quanto gli Usa abbiano voluto (o di fatto preparato) questa guerra senza alcuni elementi di informazione. E soprattutto senza un’idea non semplicistica delle logiche della geopolitica. Non è vero che gli Stati uniti non erano interessati alla guerra contro Putin perché il loro concorrente autentico è la Cina. Gli interessi della più vasta nazione del mondo, che controlla tra l’altro il secondo degli arsenali nucleari in ordine di potenza, tendono ad accostarsi a quelli di una Cina economicamente più sviluppata ma meno aggressiva e meno armata. Ad accostarsi ma non a saldarsi, perché la Cina  non affida a Putin «la tigre» la propria difesa e ha propri autonomi e ambiziosi progetti di riarmo. Ma tanto è stato sufficiente a frustrare finora i tentativi dell’Occidente di mettere uno dei suoi antagonisti contro l’altro. Nel loro sforzo di mantenere un impossibile ordine unipolare gli Stati uniti vedono in Putin un nemico sul piano strategico, amico a sua volta del nemico sul piano economico. 

Sono state già più volte descritte le responsabilità degli Usa: l’impegno non mantenuto a non estendere la Nato verso est «nemmeno di un pollice» (dichiarazione del Segretario di Stato americano Joseph Baker 1990); il rafforzamento dopo la caduta dell’Urss della loro rete militare globale; le guerre di invasione in Iraq e Afghanistan; la deriva di estrema destra che Washington ha favorito con l’adozione nell’Europa dell’est di un brutale programma neo liberista, ecc.  Ma all’elenco delle responsabilità mancano proprio quelle decisive, quelle cioè che danno il senso autentico della provocazione.  La Nato ha fatto tre gigantesche esercitazioni con scenari di guerra in Ucraina: nel giugno 2021 con il nome «Brezza marina» e la partecipazione di 32 paesi (30 della Nato e 2 invitati); nel luglio 2021 con il nome «Tre spade»; nel settembre 2021 con il nome «Tridente rapido». Alle esercitazioni Putin aveva risposto denunciando i rischi di collasso dei rapporti tra la Russia e la Nato. Per avere un’idea degli effetti possibili di questo tipo di esercitazioni, si immagini che cosa sarebbe accaduto se l’esercito russo le avesse fatte a Cuba e in Venezuela. Il mondo sarebbe stato già messo a ferro e a fuoco.

Nell’ampia documentazione che bisognerebbe conoscere è testimoniata anche l’attività nota al Cremlino della Rand Corp, organizzazione globale finanziata dal Pentagono e dalla Cia, che nel 2019 ha proposto un nuovo piano per «abbattere la Russia». Non è mancata nemmeno l’aggressione economica. Da anni gli Usa continuano a proporsi come produttori, invitano l’Europa a svincolarsi dalla dipendenza dalla Russia e fanno pressioni sulla Germania perché interrompa i lavori di costruzione di un nuovo importante gasdotto. Naturalmente tutto in nome della democrazia e della percentuale ancora non definita (20%? 50%?) di costo maggiore del gas americano. 

Tutto questo non giustifica Putin. E perché poi dovrebbe giustificarlo? Qui non c’è nessun problema di autodeterminazione, siamo di fronte a due paesi capitalistici concorrenti di cui uno è più aggressivo e più avanzato dal punto di vista dell’apparato industrial-militare. Dire perciò «né con Putin né con la Nato» è corretto, purché non diventi «né con Putin né con l’Ucraina». 

Non perdere di vista la «seconda guerra» serve solo a cercare di capire quale margine esiste per una soluzione diplomatica che ponga fine al più presto a un conflitto che dovrebbe fare paura.  L’idea che bisogna puntare a una lunga durata della guerra che logori Putin e consenta all’Ucraina di vincere è una specie di cinico politicismo e coincide tra l’altro con le intenzioni di Biden. È stata più volte evocata la Terza guerra mondiale, ma il prezzo che si paga al perdurare del conflitto è già troppo alto per ricorrere allo spettro di un evento estremo. Ci sono altri rischi e altre controindicazioni. Per esempio, quando gli arsenali nucleari sono come adesso in allerta possono prodursi incidenti per errori o per iniziative fuori controllo. Nel corso della guerra possono essere colpite centrali nucleari e con esse la sopravvivenza di buona parte dell’Europa. Il perdurare della guerra significa poi la fine delle già parziali e insufficienti misure contro il riscaldamento globale: si prevede la riapertura di centrali nucleari, si riaprono le centrali a carbone e a olio combustibile. Più dura la guerra più si rafforzano le spinte belliciste. La Francia, la Germania e l’Italia (per fare solo degli esempi) aumentano le spese militari e la Nato programma investimenti colossali con profitti dieci volte maggiori di quelli dei famigerati F35. In Italia si parla anche di reintrodurre il servizio di leva, sospeso ma non abolito nel 2004. 

C’è poi il problema della presenza neonazista, che va posto nei termini corretti. In Ucraina, oltre al battaglione Azov, esistono una decina di altre formazioni che i media italiani chiamano pudicamente «ultranazionaliste» anche quando sono ben visibili i simboli nazisti sulle loro bandiere. Neonazisti sono presenti anche dall’altra parte ed è noto che Putin ha legami e affari con numerosi partiti e gruppi della destra estrema come Le Pen, Forza Nuova o il British National Party. La questione però non può essere liquidata con un pareggio perché il problema non è chi è più o meno fascista, ma che la violenza della guerra è destinata a rafforzare il loro ruolo e la loro presenza.  

Mentre la guerra continua, intorno ai cadaveri dei russi e degli ucraini volano gli avvoltoi. Per esempio i 27 esperti di politica estera che hanno chiesto a Biden l’istituzione di una no fly zone per proteggere i corridoi umanitari e dare aiuto concreto all’Ucraina. Peccato che gran parte di coloro che hanno firmato la lettera siano in modi diversi legati all’industria delle armi. Più avvoltoi dei sostenitori della no fly zone sono coloro che reclamizzano una nuova bomba atomica a basso tasso di letalità perché agisce solo nel raggio di 5 chilometri invece che di 25. Insieme al nazismo viene sdoganata così anche la morte nucleare e i due mostri del ventesimo secolo non sono più tabù. Alle donne la guerra riserva gli stupri e il rischio di finire nelle maglie della tratta, mentre le donne trans vengono rimandate indietro ai confini come uomini obbligati alla difesa del loro paese.  Questa guerra infine, per le forme che ha assunto, ripropone i ruoli tradizionali, gli uomini a combattere, le donne in fuga con la prole.

Qual è la morale della favola e che cosa dovrebbe fare l’Ucraina? A domanda sbagliata si può dare solo una risposta sbagliata. L’Ucraina farà ciò che i suoi leader decideranno. A noi tocca rispondere a un’altra domanda: che cosa facciamo e diciamo noi per dare forza a un movimento contro la guerra? Anche noi ci siamo dentro,  per ora solo dal punto di vista economico, ma potenzialmente anche dal punto di vista militare. Viviamo in un paese con 120 basi militari più 20 siti segreti e possiamo in ogni momento essere in qualche modo coinvolte.   

La questione delle armi va considerata prima di tutto in questo specifico contesto. L’Ucraina è piena di armi, anche tecnologicamente più avanzate di quelle russe, perché già ben prima dell’invasione la Nato aveva provveduto ad armarla. Ogni aiuto, che possa davvero cambiare le sorti del conflitto in cui i rapporti di forza sono così squilibrati, sottintende un intervento dei paesi della Nato con rischi permanenti di confronto diretto. Mettere ai primi posti degli obiettivi di lotta l’invio di armi da qualsiasi parte provengano è ridicolo e sbagliato. È ridicolo perché dovremmo impegnarci a costruire un movimento che a gran voce chiede ciò che Joe Biden e Boris Johnson già fanno. È sbagliato perché bisognerebbe chiedersi come faremo domani a ripetere il mantra «Fuori la Nato dall’Italia», se abbiamo avallato il suo ruolo di ombrello protettivo e alleanza difensiva. Tra parentesi: le armi sono trasportate da agenzie private che non le consegnano a cittadine e cittadini inesperti ma alle milizie paramilitari, compreso il battaglione Azov e in un contesto in cui il 40 per cento dei combattenti delle due parti è mercenaria.

Arriviamo così alla Terza guerra mondiale, che è una prospettiva realistica anche a prescindere dalla vicenda Ucraina che pure ne rappresenta uno scenario ideale. Per ragioni strutturali, politiche e culturali il vecchio ordine internazionale è doppiamente in crisi. È in crisi l’assetto unipolare per l’emergere sempre più evidente di altre potenze ed è in crisi la politica come capacità di governo di classi e caste dominanti. Il dominio dei mercati finanziari, in modo particolare in Occidente ma non solo, imprime all’ordine attuale caratteri di irrazionalità pericolosi. Questa crisi rende le prospettive di soluzione attraverso escalation militari semplicemente letali, perché squilibri del genere si risolvono spesso proprio con guerre delle dimensioni geopolitiche del problema.  

Ma possiamo davvero permetterci una Terza guerra mondiale? Resto sempre stupefatta dalla verifica che c’è ancora chi non si rende conto che gli arsenali nucleari cambiano tutto il nostro rapporto con le guerre e che non esiste alternativa a un nuovo ordine che derivi da trattative, compromessi e diplomazie. La rivoluzione? Stando le cose come oggi stanno, è più facile che l’alternativa sia la Terza guerra mondiale. Primum vivere poi riprendere la lotta perché l’ordine nuovo sia quello rivoluzionario.

*Lidia Cirillo è stata responsabile della collana di testi femministi Quaderni viola di cui Alegre ha pubblicato la seconda serie. Ha pubblicato, tra l’altro, Lettera alle romane (Il dito e la luna, 2001), La luna severa maestra (Il dito e la luna, 2003), Da Vladimir Ilich a Vladimir Luxuria (Alegre, 2006) e insieme a Cinzia Arruzza Storia delle storie del femminismo (Alegre, 2017).