11/8/11
Londra sta bruciando
Che siano i vecchi testi dei Clash - London’s burning e London calling
- gli strumenti più utili per capire quello che sta accadendo a Londra
? Potrebbe sembrare una provocazione ma poi, pensandoci bene, non
tanto. Se dovessimo rifarci solo ai commentatori dei media mainstream
dovremmo concludere che siamo di fronte a saccheggi e incendi ad opera
di fantomatiche gang criminali che hanno approfittato in modo
strumentale di un “grave errore” della polizia. Uno schema
interpretativo che si ripete stancamente dal 2005 con le ” notti
dei fuochi” delle banlieues francesi, passando per la rivolta giovanile
e studentesca greca del 2008, per approdare a Londra in questi giorni,
solo per citare alcuni esempi. Quel che non si capisce, o si fa finta
di non capire, è che pur nelle evidenti diversità queste forme di
ribellione hanno dei tratti comuni. Partiamo dalle differenze. Le
banlieues francesi sono esplose attaccando direttamente i simboli e i
luoghi istituzionali sia che fossero municipi, scuole o biblioteche in
quanto visti come espressione della catena del potere statale che aveva
nella polizia lo strumento della repressione brutale. La quarta
generazione di migranti, nati in Francia e formalmente cittadini
francesi, ha mostrato di non riconoscersi nei “valori “
repubblicani francesi e al tempo stesso non ha mai avuto un paese di
origine dove eventualmente tornare anche solo con la costruzione di un
immaginario. La rivolta greca della fine del 2008 ha avuto i caratteri
della contestazione radicale di un sistema economico e della sua
rappresentanza politica, con un’evoluzione che si è politicizzata
velocemente. I giovani greci hanno misurato sulla propria pelle
la distanza tra la loro condizione e un futuro fatto di politiche
liberiste e securitarie. Una distanza che è precipitata nel presente
dell’omicidio da parte della polizia di Alexandros Grigoropoulos ed è
progressivamente aumentata con la distruzione dello stato sociale
imposta dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.
In una lettera di qualche giorno fa al quotidiano inglese The Guardian
un lettore commentando i riots che si stavano diffondendo in altre
città oltre Londra si esprimeva in questi termini: i rivoltosi stanno
facendo per le strade quello che i banchieri hanno fatto nel paese.
Come dire: ai riots dei banchieri nelle borse mondiali si sono
succeduti i riots nelle strade inglesi. E’ altresì fuori discussione
l’influenza, in quello che sta succedendo nelle città inglesi, delle
rivolte arabe e del movimento studentesco dell’inverno scorso.
Un’influenza non diretta ed esplicita ma che si dà nei comportamenti,
nella radicalità della contrapposizione ai modelli di dominio, nel
rifiuto della ricerca di una rappresentanza politica tradizionale.
Ma a Londra c’è dell’altro. A partire dal neologismo razzista,
Londonistan, che si è affermato anche nel gergo popolare per definire
la città. Londra come l’Afghanistan, tante “tribù”, tante etnie, che
vivono ognuna nel propri territori dai confini simbolicamente ben
delimitati e definiti. E’ il risultato di una politica, laburista o
conservatrice non fa molta differenza, che traeva origine da un
concetto di integrazione che si basava sulla “relazione tra le
razze”. Il nucleo centrale era rappresentato dalla “britannicità”
bianca attorno al quale ruotavano le varie comunità delle “minoranze
etniche”. Lo Stato favoriva e finanziava in vario modo le gerarchie
delle comunità migranti per esercitare una forma di controllo sui
conflitti che esplodevano o potevano esplodere ed accettare un sistema
di relazioni sociali e politiche che prevedeva un riconoscimento,
sempre provvisorio e condizionato, delle “minoranze etniche”. Questo
modello di integrazione differenziale, specificamente inglese ma con
sostenitori anche dalle nostre parti, è andato in pezzi. La crisi
politica e economica, gli elevati tassi di precarietà e disoccupazione
presenti nelle “minoranze etniche” pur con cittadinanza britannica, la
messa in discussione - con comportamenti e atteggiamenti sociali
e culturali - dell’ “autorevolezza” della comunità da parte delle
giovani generazioni hanno scardinato quello che altro non era una forma
di razzismo istituzionale per interposta persona. Le gerarchie e le
relazioni interne alle comunità erano, e i parte lo sono ancora, intese
come strutture disciplinari e di controllo subordinate allo Stato. Da
qualche tempo il Governo inglese, anche qui tra Brown e Cameron non ci
sono particolari differenze, ha ripreso il monopolio del razzismo
istituzionale aggiungendovi una dose massiccia di islamofobia con una
legislazione speciale.
“Out of control” titolava un paio di giorni fa l’Indipendent
riferendosi ai riots. Avrebbe dovuto titolare: “fuori controllo ormai
da qualche anno”. Tuttavia si sbaglierebbe se si pensasse che la
rivolta iniziata a Londra sia un fenomeno da catalogare sotto la voce
della rabbia cieca e apolitica. Se per politica si intende la
costituzione di uno spazio comune conflittuale in cui si impongono quei
soggetti che lo “spazio del dominio” non vede, che usano parole che non
erano riconosciute come tali, che hanno comportamenti difformi alle
regole del mercato delle merci allora qui si collocano i tratti comuni
tra Parigi, Atene e Londra. Sono forme di soggettivazione ibride e
accidentate che raggiungono velocemente le fasi acute dello scontro
sociale e istituzionale per poi rifluire. Ma qui sta la soglia della
trasformazione, della produzione politica di comportamenti che non si
fanno riassorbire e non delegano la loro rappresentanza. I
comportamenti di una nuova classe a venire.
Forse il salto di qualità consiste nel non posizionarsi dal lato dei
commentatori, seppur solidali, delle soggettività che aprono gli spazi
politici ma frequentare, attraversare e facendosi attraversare da
quegli spazi. Il governo inglese probabilmente riuscirà a domare questo
incendio intensificando la repressione e le leggi speciali. Un fatto
tuttavia appare certo, in qualche modo già prefigurato da Joe Strummer,
oggi: “ Londra sta chiamando le città sperdute”
Felice Mometti