La Russia di Putin e
l’imperialismo periferico
Di Anatoly Kropivnitskyi
Prima pubblicazione su Europe
Solidaire Sans Frontières
Traduzione a cura dei compagni di BRESCIA
ANTICAPITALISTA
Perché l’aggressione russa in Ucraina è
imperialista? Come si può interpretare in base
all’analisi dell’imperialismo che fa Lenin e in cosa
si differenziano queste interpretazioni? Il
ricercatore in scienze sociali Anatoly Kropivnitskyi
esamina l’economia politica degli imperi.
L’invasione russa dell’Ucraina ha diviso la sinistra
internazionale. Questa divisione è stata meno profonda
che nel 2014, quando alcune organizzazioni e attivisti
di sinistra hanno sostenuto la dichiarazione delle
Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk, considerando
il conflitto di Donbass come una rivolta popolare. Ma il
24 febbraio 2022 sono state le truppe russe ad
attraversare il confine con l’Ucraina, e non il
contrario. Invadendo l’Ucraina, Putin ha privato i suoi
sostenitori di sinistra dell’opportunità di discutere il
fatto dell’aggressione; quindi, ciò che si discute oggi
non è l’invasione, ma le sue possibili cause. Così,
alcuni commentatori insistono che la Russia è stata
costretta a lanciare la sua “operazione militare
speciale” e che, in effetti, è immersa in una guerra
difensiva contro gli Stati Uniti e la NATO in territorio
ucraino.
Questa tesi è talvolta supportata da riferimenti alla
teoria dell’imperialismo di Lenin. Lo stato russo non è
rappresentato come un campo in un conflitto
imperialista, ma come una potenza capitalista che
resiste all’imperialismo ed è sostanzialmente diversa
dalle potenze imperiali. Anche quando condannano
l’aggressione di Putin, i sostenitori di questa teoria
insistono che la Federazione Russa non è uno stato
imperialista e quindi le critiche di sinistra dovrebbero
concentrarsi sui “veri” imperialisti, cioè il blocco
della NATO guidato dagli Stati Uniti.
Proprio questo argomento è stato invocato da alcuni
media delle forze di sinistra nei primi giorni della
guerra. Per esempio, il 7 marzo 2022, Arkansas Worker ha
pubblicato un articolo di Gary Wilson sostenendo che la
Russia non può essere una potenza imperialista a causa
della sua economia semicoloniale, basata
sull’esportazione di risorse naturali. Wilson paragona
la Russia al Messico: entrambi i paesi sono capitalisti,
le loro economie sono comparabili per dimensioni, ma
nessuno può essere trattato come imperialista. Al
contrario, come la maggior parte dei paesi capitalisti,
sono “sfruttati dall’imperialismo, dal capitale
finanziario”. Anche se, secondo Wilson, Putin non può
essere considerato un leader anti-imperialista,
“l’operazione militare russa per ‘demilitarizzare e
denazificare’ l’Ucraina e riconoscere la Repubblica
Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Luhansk
è un movimento contro l’imperialismo, l’imperialismo
americano e l’imperialismo della NATO”.
Nell’aprile 2022, David North, editore del World
Socialist Web Site, ha pubblicato la sua corrispondenza
con un socialista anonimo della Russia. Condannando
l’invasione dell’Ucraina come “una risposta disperata ed
essenzialmente reazionaria alla pressione implacabile e
crescente esercitata dagli Stati Uniti e dalla NATO
sulla Russia”, North sottolinea che la guerra
Russia-Ucraina serve gli interessi dell’imperialismo
americano il cui obiettivo è quello di distruggere la
Russia come un ostacolo alle sue ambizioni globali, per
prendere il controllo delle sue armi nucleari, e poi
fare lo stesso con la Cina. La Russia e la Cina, i due
paesi che hanno subito rivoluzioni sociali e possono
attuare una politica estera indipendente dagli Stati
Uniti, sono trattati esclusivamente come oggetti di
aggressione imperialista, ma mai come loro soggetti.
Il corrispondente russo di North sviluppa ulteriormente
questa logica, sostenendo che l’invasione russa
dell’Ucraina non può essere trattata come un “atto
imperialista […] un’azione intrapresa da una potenza
capitalista per espandere il suo potere economico,
finanziario e militare, cercando di re-dividere il mondo
in nuove condizioni di esistenza”. La borghesia russa
non sta cercando di uscire dalla sua nicchia all’interno
della divisione internazionale del lavoro, poiché non
esiste nel paese capitale finanziario sviluppato che sia
disposto a diffondersi alla ricerca di nuovi mercati di
investimento all’estero. Il socialista anonimo crede che
le politiche della Russia non siano imperialiste,
nemmeno verso i suoi vicini più vicini, la Bielorussia e
il Kazakistan. Per diventare una potenza imperialista,
la Russia dovrebbe evolversi in una dittatura fascista
basata sulla mobilitazione, che, secondo l’autore, è uno
scenario improbabile.
Mito e realtà dell’imperialismo russo
Questi argomenti risalgono alle discussioni sul fatto
che la Russia sia uno stato imperialista, che sono
iniziate dopo l’intervento della Russia nella crisi
politica ucraina nel 2014. Coloro che hanno negato il
carattere imperialista della Federazione Russa hanno
argomentato sulla base di osservazioni empiriche o delle
loro stesse interpretazioni della teoria
dell’imperialismo di Lenin. Un esempio del primo
approccio può essere trovato nell’articolo del 2016 di
Radhika Desai, Alan Freeman e Boris Kagarlitsky, dove
hanno sostenuto che mentre la borghesia russa può
benissimo cercare di raggiungere la sua ambizione
espansionistica usando lo Stato, tali progetti si
imbatteranno inevitabilmente in limitazioni oggettive:
principalmente la debolezza dello stato stesso. La
Russia, la dodicesima economia più grande del mondo in
termini di PIL, con molte meno basi militari della NATO,
nel 2016 era a malapena capace di un’espansione
imperialista, il che avrebbe anche esacerbato i rischi
di instabilità politica interna.
Un esempio di un altro approccio è una serie di articoli
pubblicati da Roger Annis e Renfrey Clarke, dedicati a
una critica del “mito dell’imperialismo russo” sulla
base della teoria di Lenin. Secondo Annis e Clarke,
questa teoria è ancora valida fino ad oggi, anche se con
due importanti riserve. In primo luogo, le colonie
ufficiali sono state sostituite dal sistema delle
istituzioni finanziarie internazionali (il FMI, la Banca
Mondiale e l’OMC), i principali agenti dell’oppressione
economica nel “mondo in via di sviluppo”. In secondo
luogo, le guerre interinterperialiste sono state
sostituite da alleanze militari come la NATO, dirette
alla periferia oppressa. Rispetto agli Stati Uniti,
all’Europa occidentale, al Canada, al Giappone e
all’Australia, la Russia è un paese con un’industria
debole, una bassa produttività del lavoro e un capitale
finanziario sottosviluppato. Contribuisce “poco
direttamente alla quintessenza dell’attività
imperialista, cioè l’esportazione di capitale alla
periferia e l’estrazione di benefici dal lavoro e dalle
risorse dei paesi in via di sviluppo”. L’economia russa
dipende dall’esportazione di risorse energetiche. La
Russia non mantiene un commercio estensivo con i paesi
periferici e non ottiene abbastanza benefici dallo
scambio disuguale. Non c’è capitale in eccesso nel paese
e gran parte degli investimenti diretti stranieri è
diretto da paesi dell’Europa occidentale o giurisdizioni
offshore [extraterritoriali]. Questi investimenti sono
destinati all’evasione fiscale e al riciclaggio di
denaro o vengono reinvestiti in Russia attraverso entità
straniere. Le possibilità di investimento in Russia sono
tutt’altro che esaurite e quindi non c’è una necessità
strutturale per l’espansione capitalista all’estero che
Lenin prende come punto di partenza della sua analisi.
Pertanto, la Russia, come l’India o il Brasile, non è
una potenza imperialista, e il suo uso della forza
militare per intervenire nella politica di altri paesi
non la rende imperialista di per sé. Al contrario,
poiché le potenze imperialiste ignorano sistematicamente
gli interessi della Russia, come nel caso
dell’espansione della NATO verso est, la Russia è
piuttosto una vittima dell’imperialismo.
Levent Dölek, vicepresidente del DIP, il Partito
Rivoluzionario dei Lavoratori della Turchia, arriva a
conclusioni simili. Nell’ottobre 2018, ha pubblicato un
articolo prevedendo una guerra imperialista tra Stati
Uniti e NATO contro Russia e Cina. Come Annis e Clarke,
Dölek si basa sulla definizione di imperialismo di Lenin
e sottolinea che nei paesi imperialisti le esportazioni
di capitale dominano le esportazioni di merci. Al
contrario, la Cina e la Russia sono importatori netti di
capitale ed esportatori di merci: il commercio della
Cina è dominato dalle esportazioni di prodotti
industriali, quello della Russia dalle risorse
energetiche. Le più grandi aziende della Russia e della
Cina sono controllate dallo stato, il che, secondo
Dölek, è incompatibile con le “tendenze classiche del
capitale finanziario”. Questo significa che entrambi i
paesi non hanno le basi economiche necessarie per
l’espansione imperialista e che, anche se i loro regimi
di governo non meritano la simpatia della sinistra,
possono almeno resistere al “vero” imperialismo, anche
se non possono sconfiggerlo.
Clarke e Dölek sono tra i critici più coerenti del “mito
dell’imperialismo russo”. Secondo Clarke e il suo
coautore David Holmes, il ritiro delle truppe russe dal
territorio ucraino alle frontiere il 24 febbraio 2022 e
i negoziati sullo status della Crimea e del Donbass
equivarrebbero a “una concessione massiccia e non
forzata al capitale mondiale”, mentre la sconfitta del
regime di Putin porterebbe alla ripresa della dipendenza
della Russia dall’Occidente, come negli anni del governo
di Eltsin, o al crollo dello stato. Dölek va ancora
oltre: la vittoria della Russia in Ucraina sarebbe una
vittoria sulla NATO e infliggerebbe un duro colpo alla
borghesia mondiale, causando un miglioramento delle
condizioni di vita della classe operaia in tutto il
mondo, non solo nella periferia, ma anche nei centri
imperialisti. Al contrario, la sconfitta della Russia
porterebbe all’emergere di un regime oligarchico simile
a quello degli anni di Eltsin, e il paese degenererebbe
in una semicolonia, data la debolezza del proletariato
russo.
L’imperialismo della Russia zarista
Questa argomentazione è tutt’altro che esente da
problemi. In primo luogo, come mostra la stessa analisi
di Lenin sulla Russia zarista, la posizione periferica
di uno stato nella divisione internazionale del lavoro
non esclude la possibilità di applicare politiche
imperialiste. Clarke e Dölek evitano di affrontare
questa questione insistendo sul fatto che c’è una
differenza qualitativa tra l’impero russo e
l’imperialismo moderno, la cui nascita ha descritto
Lenin.
Clarke e Annis affermano che “Lenin vedeva la Russia
pre-rivoluzionaria” come un esempio di imperialismo
pre-moderno, “tradizionale feudale-dinastico e
mercantile, basato sull’estrazione di redditi contadini
e profitti commerciali”, che si univa con
l’Austria-Ungheria e l’Impero Ottomano, e lo distingueva
da paesi di “imperialismo finanziario-industriale
moderno” avanzato, come l’Inghilterra, la Francia, la
Germania e gli Stati Uniti. Allo stesso modo, Dölek
ricorre all’opuscolo Il socialismo e la guerra, in cui
Lenin scrive che “in Russia, l’imperialismo capitalista
di quest’ultimo tipo è stato pienamente rivelato nella
politica dello zarismo verso la Persia, la Manciuria e
la Mongolia; ma, in generale, è l’imperialismo militare
e feudale che predomina in Russia. Dölek può quindi
concludere che l’impero russo era più vicino agli imperi
pre-capitalisti degli Asburgo e degli Ottomani, che
furono strumentalizzati dagli imperialisti “veri”.
Se Dölek, Clarke e Annis sono così interessati
all’interpretazione di Lenin dell’imperialismo, non è
solo perché rispettano la lettera della teoria: vogliono
anche enfatizzare la rottura storica che presumibilmente
separa l’imperialismo moderno dalle sue forme
precedenti. Secondo loro, quando Lenin scrisse
dell’imperialismo della Russia zarista nel 1914, poteva
invocarlo solo come una vestigia del passato (Clarke e
Annis), o significare il ruolo subordinato della Russia
nella rivalità tra gli imperialisti “veri” (Dölek).
Tuttavia, la Russia post-sovietica non può essere
chiamata imperialista a causa della sua posizione
periferica nella divisione internazionale del lavoro e
della debolezza del suo capitale finanziario.
Questa interpretazione di Lenin è corretta? Nei testi
scritti nel 1915-1916, durante la preparazione di
L’imperialismo, fase superiore del capitalismo, su cui
si basano Clarke e Dölek, Lenin tratta la Russia zarista
come una delle potenze imperialiste, anche se ammette
che è una potenza relativamente arretrata. Nell’agosto
1915, Lenin scrisse: “Il mondo è stato diviso da una
manciata di grandi potenze, cioè potenze che sono
riuscite a saccheggiare e opprimere le nazioni”,
riferendosi a Gran Bretagna, Francia, Russia e Germania.
Nell’articolo del 1916, parlò di “la rivalità più amara”
tra “invasori imperialisti estremamente potenti”,
evidenziando la Russia insieme alla Gran Bretagna e alla
Germania. All’inizio dello stesso anno, mise la Russia
accanto alle “vecchie potenze saccheggiatrici”, Gran
Bretagna e Francia, invece della “dinastica feudale”
Austria-Ungheria e l’Impero Ottomano: “Questa guerra è
combattuta dall’egemonia mondiale, cioè dalla maggiore
oppressione delle nazioni deboli, da un’altra divisione
del mondo, dalla divisione delle colonie, delle sfere di
influenza, ecc. Infine, in Il socialismo e la guerra,
Lenin tratta la Russia come una delle sei “chiamate
‘grandi’ potenze (cioè quelle che hanno ottenuto un
grande bottino)”, la cui rivalità è specifica
dell’imperialismo moderno (oltre alla Russia, la lista
include la Gran Bretagna), Francia, Germania, Stati
Uniti e Giappone). Un’osservazione simile è sollevata
nell’imperialismo.
Sviluppo disuguale
I testi di Lenin mostrano che l’impero russo è un’entità
contraddittoria: il suo “imperialismo dell’ultimo tipo”
coesiste con l’arretratezza economica. Riassumendo i
suoi argomenti sulla divisione capitalista del mondo,
Lenin scrisse:
“Non importa quanto sia forte il processo di
livellamento del mondo, di equalizzazione delle
condizioni economiche e di vita in diversi paesi, che si
è verificato negli ultimi decenni sotto la pressione
della grande industria, del capitale di scambio e del
capitale finanziario, persistono ancora notevoli
differenze; e tra i sei paesi menzionati vediamo, in
primo luogo, giovani paesi capitalisti (Stati Uniti,
Germania, Giappone) i cui progressi sono stati
straordinariamente veloci; in secondo luogo, paesi con
un antico sviluppo capitalista (Francia e Gran
Bretagna), il cui progresso è stato ultimamente molto
più lento di quello dei paesi sopra menzionati, E in
terzo luogo, un paese economicamente molto arretrato
(Russia), dove l’imperialismo capitalista moderno è
impigliato, per così dire, in una rete particolarmente
stretta di relazioni pre-capitaliste.
La tesi dello sviluppo disuguale del capitalismo fu
formulata esplicitamente per la prima volta da Trotsky,
ma fu Lenin a introdurla nella teoria dell’imperialismo.
In Imperialismo, Lenin parla della disuguaglianza
nell’espansione delle ferrovie, della distribuzione dei
possedimenti coloniali, del ritmo di sviluppo economico
nei diversi paesi, delle forme di dipendenza tra Stati,
ecc. Questo si traduce in disuguaglianza tra le “grandi
potenze” e il resto del mondo (colonie e semicolonie),
così come tra le “grandi potenze” stesse, poiché anche i
loro livelli di sviluppo economico differiscono. Infine,
come dimostra il caso della Russia, anche lo sviluppo
capitalista interno delle varie «grandi potenze» è
disuguale.
Nonostante le disuguaglianze interne dello sviluppo del
capitalismo in Russia, Lenin tratta inequivocabilmente
l’impero russo come parte della rivalità
inter-imperialista, o “la concorrenza tra vari
imperialismi”, che considera la caratteristica politica
chiave dell’imperialismo moderno. Lenin oppone questo
imperialismo moderno non agli imperi pre-capitalisti, ma
al periodo tra gli anni 1840 e 1860, che fu quello dello
“sviluppo del capitalismo pre-monopolista, del
capitalismo in cui predominava la libera concorrenza” e
del dominio della Gran Bretagna come fornitore
monopolista di beni fabbricati e potenza coloniale più
ricca.
Questo periodo finì con la crisi del 1873, che segnò
l’inizio di una transizione trentennale verso il
capitalismo monopolistico. La fusione dei monopoli
industriali e bancari ha dato origine al capitale
finanziario e la lotta per la distribuzione del mondo si
è intensificata. Il monopolio industriale britannico non
poteva più rimanere senza opposizione. Nell’articolo del
1916, Lenin sviluppa la sua idea:
“L’ultimo terzo del XIX secolo ha visto la transizione
verso la nuova era imperialista. Il capitale finanziario
non di una, ma di diverse, anche se pochissime, grandi
potenze gode di un monopolio. (In Giappone e in Russia,
il monopolio del potere militare, di vasti territori o
strutture speciali per rubare alle nazionalità
minoritarie, Cina, ecc., in parte completa e in parte
sostituisce il monopolio del capitale finanziario
moderno). Questa differenza spiega perché la posizione
monopolistica dell’Inghilterra ha potuto rimanere senza
opposizione per decenni. Il monopolio del capitale
finanziario moderno viene sfidato freneticamente; l’era
delle guerre imperialiste è iniziata.
La Russia zarista era senza dubbio parte della rivalità
inter-imperialista. Anche se lo sviluppo incompleto e
disuguale del suo capitale finanziario le ha impedito di
essere classificato tra i paesi “finanziariamente
ricchi”, è stato compensato dall’espansione territoriale
e dal potere militare.
Le fasi del capitalismo
Come abbiamo visto in precedenza, Clarke e Dölek cercano
di svelare il mito dell’imperialismo russo mostrando che
il capitalismo nella Russia di oggi non può essere
considerato avanzato. Se l’imperialismo è di fatto la
fase superiore del capitalismo, allora il capitalismo
russo contemporaneo cade molto al di sotto di quella
fase, sia che sia valutato dagli investimenti in
capitale fisso, dal PIL pro capite o da qualsiasi altra
misura convenzionale. Ma è corretto identificare la fase
superiore del capitalismo con il livello di sviluppo
capitalista di un dato paese?
Lenin ha detto chiaramente che la fase superiore del
capitalismo deve essere intesa come quella in cui la
produzione raggiunge una scala tale che la libertà di
concorrenza è sostituita dal monopolio. È, secondo
Lenin, “l’essenza economica dell’imperialismo”. Vale la
pena qui tornare alla tesi dello sviluppo disuguale.
Nella sua polemica contro Kautsky, Lenin ricorda che il
dominio del capitale finanziario, caratteristico
dell’epoca imperialista, non attenua, ma, al contrario,
aumenta “le disuguaglianze e le contraddizioni inerenti
all’economia mondiale”. Questo argomento chiarisce già
che, quando parla della fase superiore del capitalismo,
Lenin non si riferisce ai singoli paesi e al loro
particolare livello di sviluppo economico, ma all’intero
sistema di relazioni economiche che abbraccia il mondo
intero. L’imperialismo non è altro che il risultato di
questo processo di integrazione economica
internazionale.
Come ha scritto Lenin, il territorio della Terra è già
condiviso tra i più grandi paesi capitalisti, cioè è già
coinvolto nel processo di accumulazione capitalista,
anche solo come una periferia ricca di risorse. L’epoca
imperialista è l’epoca della ridivisione di un mondo già
diviso, quando
“Ai molti ‘vecchi’ motivi della politica coloniale, il
capitale finanziario ha aggiunto la lotta per le fonti
di materie prime, per l’esportazione di capitale, per le
sfere di influenza, cioè per le aree di accordi
redditizi, concessioni, profitti monopolistici, ecc.,
per il territorio economico in generale”.
Il carattere disuguale dello sviluppo capitalista,
secondo Lenin, esclude qualsiasi mezzo diverso dalla
guerra e dalla divisione delle sfere di influenza (anche
attraverso il colonialismo) per conciliare la disparità
tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulo di
capitale. Nell’era del capitalismo di libera
concorrenza, i conflitti diretti potevano essere evitati
attraverso la colonizzazione di nuovi territori, ma la
transizione al capitalismo monopolista significa una
transizione verso “una politica coloniale di possesso
monopolistico del territorio del mondo, che è stato
completamente diviso”, rendendo il conflitto
inevitabile:
“L’unica base concepibile sotto il capitalismo per la
divisione di sfere di influenza, interessi, colonie,
ecc., è la valutazione della forza dei partecipanti,
della loro forza economica, finanziaria, militare, ecc.
E la forza di questi partecipanti alla divisione non
cambia allo stesso modo, perché lo sviluppo egualitario
di diverse aziende, consorzi, rami industriali o paesi è
impossibile sotto il capitalismo.
Qui Lenin sottolinea ancora una volta che le fonti del
potere imperialista sono diverse e non si limitano solo
al «potere finanziario». Inoltre, le diverse potenze
imperialiste sono dotate di diversi mezzi. Questa è
un’altra dimensione del carattere generalmente disuguale
dello sviluppo capitalista, che si acuisce ulteriormente
con la transizione alla fase monopolistica, rendendo
inevitabile il confronto diretto tra le potenze
imperialiste. I paesi che partecipano alla rivalità
inter-imperialista differiscono l’uno dall’altro nel
loro livello di sviluppo economico e possono quindi
includere non solo potenze finanziarie, ma anche un
impero periferico che gode di vantaggi monopolistici
nella forza militare e nell’accesso a fonti di materie
prime.
Come mostra l’analisi dei sistemi mondiali, nonostante
il loro arretratezza economica, il capitalismo
periferico può rivelarsi un capitalismo avanzato, per
esempio per quanto riguarda i suoi metodi di
sfruttamento del lavoro. I piantatori del sud degli
Stati Uniti o delle Indie Occidentali potrebbero essere
stati capitalisti più efficienti degli industriali della
Gran Bretagna o del New England, anche se entrambi erano
coinvolti in un unico sistema di divisione
transatlantica del lavoro. Allo stesso modo, il
capitalismo corrotto di “comprimari” può portare a forme
più pericolose di aggressione imperialista rispetto a
quelle del “capitalismo avanzato” funzionale.
Capitale finanziario e imperialismo di investimento
Nella loro analisi, Clarke e Dölek non solo invocano
indicatori globali di sviluppo economico e la qualità
dell’ambiente istituzionale, ma si concentrano anche sul
ruolo del capitale finanziario nell’espansione
imperialista, come ha sottolineato Lenin. Dölek scrive
che, dato che sono esportatori netti di materie prime
(piuttosto che esportatori netti di capitale), né la
Russia né la Cina possono essere potenze imperialiste.
Anche se la Russia esporta capitale nei paesi
post-sovietici, la maggior parte degli investimenti
stranieri della Russia all’estero vanno in luoghi
extraterritoriali o in paesi economicamente sviluppati
dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, e quindi
assomigliano a un modello di fuga di capitali, piuttosto
che a un’espansione imperialista. Clarke e Annis
sottolineano anche che in Russia manca l’alleanza di
classe tra i capitalisti finanziari e industriali
descritta da Lenin e che la vera forza egemonica è
rappresentata dall’alleanza tra alti funzionari e
oligarchi che sfruttano le risorse naturali.
Tale lettura riduce la portata della teoria di Lenin a
una forma specifica di espansione imperialista, quella
dell’imperialismo d’investimento. Nella sua definizione
di imperialismo, Lenin sottolinea il ruolo del capitale
finanziario e dell’oligarchia finanziaria come
principali motori dell’espansione imperialista, così
come il ruolo delle esportazioni di capitale come mezzo.
Qui sviluppa l’argomento di Hobson che la principale
caratteristica politica dell’imperialismo moderno è la
rivalità tra vari imperi, mentre la sua novità economica
consiste nel dominio degli interessi finanziari o di
investimento sugli interessi commerciali.
Tuttavia, a differenza del capitale finanziario di
Hobson, Lenin usa il concetto marxista di capitale
finanziario (Finanzkapital), codificato da Rudolf
Hilferding, che si riferisce alla fusione dei monopoli
industriali e bancari. Pertanto, non solo menziona il
ruolo chiave degli interessi finanziari, ma parla della
fase superiore di monopolizzazione, quando i monopoli
intra-settoriali (ad esempio, nel settore bancario o
manifatturiero) iniziano a fondersi anche tra i settori,
ad un livello superiore.
È caratteristico che nell’imperialismo, così come in
altre opere scritte durante la prima guerra mondiale,
Lenin usi in modo intercambiabile i termini
“imperialismo” e “epoca del capitale finanziario”. La
fase più recente del capitalismo è il capitalismo
monopolista, e il capitale finanziario è, per così dire,
il monopolio dei monopoli, la cui formazione segna la
transizione dal capitalismo a un ordine socio-economico
superiore. In altre parole, Lenin designò il capitale
finanziario come l’espressione più chiara della
monopolizzazione osservabile al suo tempo, mentre
permetteva altre possibilità.
Aggiungendo alla definizione economica dell’imperialismo
un’analisi del suo luogo storico, Lenin evidenzia
quattro tipi di monopoli caratteristici dell’era
imperialista: monopoli basati sulla concentrazione della
produzione, l’accesso esclusivo alle materie prime, i
monopoli bancari e i monopoli territoriali (o “possesso
monopolistico delle colonie”). Le potenze imperialiste
potrebbero dipendere da diverse combinazioni di questi
elementi. A metà degli anni 1910, quando lo sviluppo
della banca universale raggiunse il suo apice, la
fusione dei monopoli industriali e bancari potrebbe
sembrare la combinazione più avanzata (come lo era per
Lenin). Tuttavia, erano possibili anche altre
combinazioni, per esempio la combinazione di materie
prime e monopoli territoriali, che nel caso dell’impero
russo compensava la sua mancanza di “potere
finanziario”.
Un ragionamento simile può essere applicato alla
questione delle esportazioni di capitale, a cui Lenin,
seguendo Hobson, atteneva particolare importanza come
principale strumento dell’espansione imperialista.
L’eccesso di capitale accumulato grazie ai guadagni dei
monopoli crea un dilemma per il capitalista: o
condividerlo con i lavoratori e ridurre così il margine
di profitto (impossibile sotto il capitalismo, secondo
Lenin), o investirlo all’estero, in paesi dove i costi
di produzione sono più bassi, il che richiede interventi
politici e militari per proteggere gli investimenti.
Studi recenti mostrano che, contrariamente alle
affermazioni di Hobson e Lenin, le esportazioni di
capitale e l’espansione territoriale hanno diverguto e
non erano necessariamente collegate. Le potenze
imperialiste dell’inizio del secolo, come la Gran
Bretagna, la Francia e la Germania, hanno reimportato le
entrate degli investimenti stranieri e non erano
esportatori, ma importatori di capitale. Tra il 1870 et
1900, periodo descritto da Lenin come il passaggio da un
capitalismo di libera concorrenza a un capitalismo
monopolista, la maggior parte degli investimenti
stranieri europei andarono verso gli Stati colonizzatori
europei del Nuovo Mondo e non verso le regioni tropicali
che si stavano creando.
Economia e politica
Sottolineando l’arretratezza del capitalismo russo,
Dölek e Clarke si riferiscono non solo agli indicatori
economici, ma anche allo stato generale dell’ambiente
istituzionale: le più grandi imprese russe sono
controllate dallo Stato; il capitale accumulato non
viene reinvestito, ma è monopolizzato da redditi
interni; l’ambiente aziendale è instabile; lo stato di
diritto non è garantito, ecc. Il capitalismo russo è
disfunzionale, corrotto e politicizzato e quindi
teoricamente non può aspirare ad un’espansione
imperialista. Potrebbe?
Definendo l’imperialismo come una fase superiore del
capitalismo, Lenin cercò di mostrare la natura
capitalista della guerra imperialista in una polemica
con altri socialisti che vedevano l’imperialismo come
una distorsione politica della logica economica inerente
al capitalismo: la progressiva e sempre più profonda
divisione internazionale del lavoro e
dell’interdipendenza economica favoriscono la convivenza
pacifica.
Lenin ha criticato questi tentativi di ridurre la
politica all’economia, definendoli una caricatura del
marxismo. In teoria, la rivalità imperialista può essere
basata su mezzi formalmente pacifici, come l’acquisto di
fonti di materie prime o di aziende concorrenti. In
pratica gli imperialisti ricorrono a metodi politici,
anche criminali. Per esempio, l’annessione di territori
facilita la loro integrazione economica: per un
imperialista, l’annessione rende “più facile corrompere
i funzionari, ottenere concessioni, approvare leggi
vantaggiose, ecc.”. Il contenuto della rivalità
imperialista, la lotta per la divisione del mondo, è
indipendente dalla forma particolare che può assumere,
pacifica o meno.
A quel tempo, gli oppositori di Lenin vedevano
l’imperialismo come puramente politico e non vedevano
che aveva le sue radici nelle condizioni materiali del
capitalismo monopolista. Oggi, i critici del mito
dell’imperialismo russo lo trattano come un fenomeno
puramente economico, considerando il radicamento
politico del capitalismo russo come prova del suo
arretratezza. Entrambi gli argomenti si basano sulla
visione borghese della politica e dell’economia come
domini distinti che esistono indipendentemente l’uno
dall’altro. Nella loro visione del capitalismo avanzato,
Dölek e Clarke si basano implicitamente sulla concezione
liberale del capitalismo che risale a Max Weber, che ha
sottolineato che il capitalismo razionale è indipendente
dall’intervento politico e agisce attraverso mezzi
formalmente pacifici.
Eppure, le linee sempre più sfocate tra il grande
capitale e lo Stato, l’acquisizione forzata di beni, il
controllo statale formale e informale sulle grandi
imprese e l’estrazione di redditi da parte di persone
interne, così come altri esempi di interpenetrazione
dell’economia e della politica nella Russia
contemporanea non sono anomalie dal punto di vista della
teoria di Lenin. Come nel marxismo in generale, la
violenza non è trattata come qualcosa di esterno al
capitalismo. In questo senso, il capitalismo giurassico
russo non è meno, ma al contrario, forse più “normale”
delle varietà americane o dell’Europa occidentale che
Dölek e Clarke sembrano prendere come punto di partenza.
Dopo Lenin
La teoria dell’imperialismo di Lenin chiaramente non è
lo strumento migliore per distruggere il mito
dell’imperialismo russo. Ma è utile per capire
l’imperialismo contemporaneo, russo o altro? Per
rispondere a questa domanda, è appropriato ricorrere
alla sociologia storica dell’imperialismo e del
colonialismo. I sociologi e i sociologi storici vedono
l’imperialismo come una forma di dominio imperiale: una
relazione gerarchica in cui una metropoli domina una
periferia limitando la sua sovranità per ottenere
vantaggi economici, politici, militari o di altro tipo.
L’oggetto della dominazione imperiale può essere un
territorio specifico che la metropoli incorpora nel suo
territorio per annessione o conquista, trasformandolo
così in una provincia, o che è governato da uno stato
delegato controllato dalla metropoli, trasformandolo
così in una colonia. In entrambi i casi, la periferia
perde la sua sovranità. Il concetto di impero è spesso
associato alla dominazione territoriale, che si tratti
degli imperi terrestri ottomani e russi o dell’impero
coloniale britannico.
La metropoli può anche dominare la periferia in modo
informale, senza limitare direttamente la sua sovranità.
In questo caso, l’oggetto di controllo non è un
territorio, ma lo spazio astratto di interessi o «sfere
di influenza». In sociologia storica, il concetto di
imperialismo è usato principalmente per descrivere
questa forma non territoriale di governo imperiale.
Secondo questa logica, il prototipo dell’imperialismo
moderno può essere trovato nelle prime città-stato
moderne del nord Italia, che si sforzavano di esercitare
un’influenza politica e diplomatica oltre i loro confini
per mantenere l’equilibrio di potere e proteggere i loro
interessi commerciali, anche sostenendo leader stranieri
favorevoli. Un altro esempio di dominio imperiale non
territoriale è quello dell’impero portoghese nel XV e
XVI secolo, che creò una rete di forti ed enclavi lungo
la costa dell’Africa occidentale, così come un sistema
di piantagioni di schiavi e miniere lungo il fiume
Zambesi. Fino al XIX secolo, i portoghesi preferivano il
commercio e l’estrazione di risorse alla conquista
territoriale; in questo senso, l’impero portoghese
assomigliava al modello di impero militare, molto simile
agli attuali Stati Uniti.
Il dominio imperiale non territoriale della prima
modernità continuò attraverso il commercio, ma
l’imperialismo moderno ha un’agenda più ambiziosa per
controllare le sfere di influenza e dipende da un
repertorio più diversificato di media. Questi includono
campagne militari a breve termine, interventi e
operazioni speciali, sostegno militare, diplomatico ed
economico a regimi dispotici periferici (come il
sostegno degli Stati Uniti al Nicaragua negli anni
1930), così come la coercizione economica attraverso il
commercio disuguale, la dipendenza commerciale o del
debito, e le sanzioni economiche. L’Impero Britannico e
gli Stati Uniti sono considerati casi paradigmatici
dell’imperialismo moderno, ma le loro storie includono
forme di espansione sia territoriali che non
territoriali. Così, quando raggiunse l’apice del suo
potere, l’impero britannico riuscì a combinare il
colonialismo (territoriale) e l’imperialismo libero
scambio (non territoriale). La storia degli Stati Uniti
nel XX secolo è dominata dall’imperialismo informale, ma
è stata preceduta dall’integrazione economica
continentale e persino dall’acquisizione di colonie
formali dopo la guerra ispanoamericana del 1898.
Lenin non ha distinto tra forme territoriali e non
territoriali di governo imperiale, colonialismo e
imperialismo informale, ma le ha raggruppate sotto la
rubrica generale di imperialismo. Dal punto di vista
della sociologia storica contemporanea, la sua teoria
può essere vista come un tentativo di collegare due
forme moderne di dominio imperiale, una territoriale
(colonialismo) e l’altra non territoriale
(imperialismo), sottolineando la sua causa fondamentale
comune: il capitalismo monopolista.
Come ha sottolineato Giovanni Arrighi, la formulazione
“imperialismo, fase superiore del capitalismo” permette
due letture. Da un lato, il termine “imperialismo”
potrebbe essere considerato un altro nome per il
capitalismo monopolista, poiché è quest’ultimo che Lenin
chiama la fase superiore del capitalismo. D’altra parte,
l’imperialismo può essere considerato come una
conseguenza del capitalismo monopolistico e quindi come
un fenomeno empirico a pieno titolo. In questo caso, la
tesi centrale della teoria di Lenin sarebbe che la
transizione dal capitalismo di libera concorrenza al
capitalismo monopolistico esclude la possibilità di
concorrenza pacifica e porta inevitabilmente a un
conflitto di Stati capitalisti:
“L’epoca dell’ultima fase del capitalismo ci mostra che
certe relazioni tra associazioni capitaliste si
sviluppano sulla base della divisione economica del
mondo, mentre parallelamente e in connessione con essa,
si sviluppano certe relazioni tra alleanze politiche,
tra Stati, sulla base della divisione territoriale del
mondo, della lotta per le colonie e della ‘lotta per le
sfere di influenza’”.
Nel russo originale, l’ultima parte della citazione
precedente si traduce letteralmente come “la lotta per
il territorio economico” (борьба за хозяйственную
территорию). Da una prospettiva storica, Lenin aveva
ragione: la lotta per il territorio economico era
infatti parte del repertorio dei motivi per le politiche
espansionistiche tra il 1870 e la prima guerra mondiale,
quando, osservando lo sviluppo industriale degli Stati
Uniti, le élite politiche ed economiche dell’Europa
continentale hanno iniziato a rendersi conto del
colossale beneficio economico dell’integrazione
territoriale. Tuttavia, le motivazioni delle politiche
coloniali e imperialiste non sono mai state esaurite in
considerazioni puramente economiche e, al contrario, le
giustificazioni economiche per la lotta per il
territorio economico non sono sempre state realistiche.
Secondo lo storico Jürgen Osterhammel, il concetto di
imperialismo è più ampio di quello di colonialismo,
poiché l’imperialismo implica la capacità della
metropoli di formulare i suoi interessi nazionali come
imperiali e di perseguirli oltre i suoi confini. Questa
attività imperiale può includere l’accaparramento di
terre coloniali, ma le colonie, o i territori economici,
non sono importanti di per sé, ma piuttosto come
potenziali simboli nei negoziati imperialisti: possono
essere sacrificati per altri scopi della politica
imperiale.
Questo approccio è coerente con la concezione di Lenin
della rivalità imperialista, i cui obiettivi non si
riducono all’appropriazione di terre e i cui mezzi sono
più ampi di una “annessione economica” formalmente
pacifica. Il territorio economico, come le sfere di
influenza, è un caso specifico della lotta per dividere
il mondo, che può essere pacifica o meno. Tuttavia,
questa lotta non è esterna al capitalismo, ma si svolge
sul suo suolo; quando il capitalismo diventa
monopolista, il conflitto imperialista – e in definitiva
la guerra – diventa una caratteristica strutturale del
sistema interstatale.
Imperialismo e democrazia
L’attuale lettura della teoria di Lenin vede i monopoli
come il motore dell’espansione imperialista: dopo aver
preso il controllo dei mercati nazionali, si sforzano di
andare oltre i confini politici dei loro paesi,
costringendo gli Stati a sostenere questa espansione e a
proteggere gli interessi dei capitalisti all’estero. Ma
la nozione di monopolio come l’ha concepita Lenin è
diversa dallo stretto senso economico di assenza di
concorrenza; Piuttosto, ciò che si intende per monopolio
è una situazione in cui uno dei concorrenti, che siano
imprese o governi, ha un vantaggio sostanziale su tutti
gli altri. È proprio questo squilibrio che troviamo nel
frammento citato sopra, dove Lenin afferma che
l’estensione territoriale e il potere militare
dell’impero russo potrebbero compensare il suo relativo
sottosviluppo in termini di capitale finanziario.
Poiché il capitalismo monopolista rimane disuguale e
inegualitario, darà costantemente luogo a tali
asimmetrie, creando le condizioni strutturali per
l’espansione imperialista che può diventare guerra. La
concentrazione del potere economico, cioè la formazione
di monopoli in senso strettamente economico, è
accompagnata dalla concentrazione del potere politico.
Così, un soggetto ottiene un vantaggio schiacciante
sugli altri, che si tratti di una società capitalista
ben dotata di risorse di lobbyng o di una dittatura
periferica che cattura grandi imprese nazionali.
A loro volta, i beneficiari dei monopoli politici ed
economici (le élite che governano le “grandi” potenze o
di potenze che pretendono solo “grandezza”) si
sforzeranno di trasformare questo vantaggio relativo e
spesso temporaneo in una relazione di dominio a lungo
termine, assumendo il ruolo di centro imperiale che
domina la periferia. Forme specifiche di dominazione
imperiale, sia territoriali che informali (non
territoriali), possono essere combinate o sostituite tra
loro a seconda delle circostanze, e l’iniziativa delle
politiche imperialiste può provenire sia dalle imprese
che dal governo. In definitiva, un’espansione
imperialista di successo richiederà una qualche forma di
cooperazione tra Stato e capitale. Immanuel Wallerstein
ha commentato una volta che “l’obiettivo principale di
ogni ‘borghese’ è quello di diventare un
‘aristocratico’”, cercando di “accumulare capitale non
attraverso i profitti ma il reddito”. Allo stesso modo,
l’obiettivo principale di qualsiasi monopolista è quello
di diventare un imperialista.
È difficile spiegare l’invasione russa dell’Ucraina come
una semplice estensione dell’imperialismo degli
investitori (secondo Clarke e Annis, il capitale russo
non era dominante in Ucraina). Tuttavia, la Russia aveva
un vantaggio schiacciante nel potenziale economico e
militare, rendendo possibile l’imperialismo informale
attraverso la coercizione economica (specialmente
durante le “guerre del gas” degli anni 2000) e, dal
2014, attraverso interventi militari.
La cosiddetta operazione militare speciale doveva essere
un intervento imperialista in senso stretto, un
tentativo di cambio di regime forzato senza l’ambizione
di catturare e controllare direttamente un territorio.
Nell’aprile 2022, dopo il fallimento del piano iniziale
per catturare Kiev e sconfiggere l’esercito ucraino,
l’obiettivo dell'”operazione militare speciale” è stato
ridefinito come la presa di controllo della regione del
Donbass. La logica territoriale ha pieno senso nel
settembre 2022, dopo il successo della controffensiva
ucraina nella regione di Kharkov, quando il Cremlino ha
dichiarato l’annessione delle province di Luhansk,
Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson. Allo stesso tempo,
durante tutto il periodo dell'”operazione militare
speciale”, i leader politico-militari russi non hanno
mai smesso di usare il loro controllo su parti del
territorio ucraino nel processo di negoziati con
l’Ucraina e i suoi alleati occidentali: dal ritiro
dell’esercito russo dall’oblast’ di Kiev, Chernihiv e
Sumy, l’abbandono di Kherson, allo sforzo esplicito di
lobbying nell’interesse della Banca agricola russa
(Rosselkhozbank) nel quadro dell'”accordo sui cereali”.
In questo senso, le acquisizioni territoriali della
Russia, che siano considerate colonie o meno, sono e
rimarranno poco più che elementi di negoziazione
imperialista, nonostante le fantasie degli irredentisti
russi.
Una delle principali contraddizioni del regime politico
russo è la sua dipendenza da una combinazione di
smobilitazione delle masse e legittimazione democratica,
rendendo l’azione collettiva pericolosa, anche da parte
dei suoi stessi alleati ideologici. Lo testimoniano le
recenti ondate di repressione contro certe voci
favorevoli alla guerra e che esprimono la delusione
dell’opinione pubblica di fronte all’evoluzione della
situazione sul fronte. Dal punto di vista della teoria
di Lenin, il carattere antidemocratico del potere
politico russo è la continuazione dell’imperialismo
nella politica interna: la transizione al capitalismo
monopolistico nell’economia va di pari passo con la
reazione politica. In articoli scritti durante la prima
guerra mondiale, Lenin caratterizzò l’imperialismo come
la negazione della democrazia, invocando il significato
originale del concetto di imperialismo, che risale alle
guerre napoleoniche e si riferisce al dispotismo
militare. La guerra imperialista, secondo Lenin, è una
tripla negazione della democrazia: “a) ogni guerra
sostituisce i ‘diritti’ con la violenza; b)
l’imperialismo in quanto tale è la negazione della
democrazia; c) la guerra imperialista assimila
totalmente la repubblica alla monarchia”.
La visione del regime di Putin presentata da certe forze
di sinistra, come un regime di resistenza
all’imperialismo occidentale, trascura completamente la
dimensione interna dell’imperialismo russo. I
sostenitori di questo punto di vista contrastano spesso
le considerazioni di sicurezza (nell’interpretazione di
Putin) con l’agenda pacifista dell’opposizione
democratica russa, rappresentando quest’ultima come una
classe media urbana politicamente ingenua. Mettendo tra
parentesi il carattere dispotico del potere di Putin, i
suoi simpatizzanti di sinistra riproducono il paradigma
della guerra fredda, in modo che la critica al campo
imperialista sia possibile solo dal punto di vista
dell’altro campo, che è più e non meno reazionario dei
suoi avversari geopolitici. Nella sua analisi
dell’imperialismo, Lenin mette in guardia contro un tale
errore:
“È fondamentalmente sbagliato, antimarxista e
antiscientifico distinguere la ‘politica estera’ dalla
politica in generale, tanto meno opporre la politica
estera alla politica interna. Sia in politica estera che
in politica interna, l’imperialismo si sforza di violare
la democrazia, di orientarsi verso la reazione. In
questo senso, l’imperialismo è senza dubbio la
“negazione” della democrazia in generale, di tutta la
democrazia, e non solo di una delle sue richieste,
l’autodeterminazione nazionale.
Questa formulazione contiene un avvertimento contro il
cieco sostegno al nazionalismo ucraino. L’imperialismo
nega la democrazia in generale, non solo
l’autodeterminazione nazionale, e l’obiettivo finale
della guerra di Putin non è la distruzione dell’identità
ucraina, ma della democrazia ucraina. La seconda linea
del fronte di questa guerra è in Russia.
Anatoly Kropivnitskyi