Le gabbie salariali: come erano state spezzate
di Antonio Moscato docente di storia del movimento operaio presso l'Università di Lecce
Il
dibattito politico di questo agosto sembra centrato sulla
proposta di reintroduzione delle gabbie salariali fatta dalla Lega Nord
e rilanciata (salvo successiva rapida smentita) da Berlusconi. È
probabile che in realtà si tratti solo dell’ennesima sortita demagogica
di Bossi a beneficio delle mandrie padane (con tanto di corna
sull’elmo) non più seria e concretizzabile dell’introduzione nella
scuola dell’insegnamento dei dialetti (quali? nella stessa “Padania” ce
ne sono a volte decine in una sola regione…) o della trasmissione di
fiction televisive in dialetto (quale? idem…).
Il pericolo
quindi non è tanto nella strampalata proposta di Bossi e Calderoni, ma
nelle risposte che ha avuto Certo, tutte o quasi negative, dai
sindacati alla Confindustria (ugualmente inorriditi dalla possibilità
che una norma contrattuale possa essere fissata per legge), da gran
parte della maggioranza e dalla totalità della cosiddetta opposizione,
ma con argomenti tali che tra gli stessi lavoratori si è creata una
notevole confusione.
Alcuni sondaggi hanno registrato al nord un
prevalere di opinioni favorevoli alla proposta, e viceversa un rigetto
generalizzato al sud (il centro si sarebbe diviso in parti più o meno
eguali). Ma cosa era stato chiesto di valutare? Nella versione più
rozza (ovviamente prevalente, in assenza di adeguate controproposte)
l’ipotesi di aumenti salariali maggiori al nord che al sud, in base al
diverso costo della vita. Ovviamente è per questo che la Confindustria
si è detta subito contraria: di aumenti non ne vuole sentir parlare. E
in effetti nessuno ne parla sul serio.
In realtà le gabbie o
zone salariali introdotte nel 1954 registravano semplicemente una
situazione esistente, estremamente articolata; nello stesso nord
c’erano molte differenziazioni, ad esempio tra Milano – zona zero – e
la provincia di Treviso (zona 7 e poi, dopo la riforma del 1961 che
dimezzava le fasce, zona 4 extra).
Prima dell’introduzione del
meccanismo, le differenze erano a volte maggiori di quelle fissate
dall’accordo del 1954: ad esempio, valutando 100 la media salariale
della regione che aveva allora il salario più alto (la Liguria), nel
1951 per il settore chimico la media della Basilicata era pari a 44,95,
ma la stessa Lombardia, che non è solo Milano, era pari a 65,66.
Viceversa per la metallurgia la regione con media più alta era la Valle
d’Aosta, pari a 100, con la solita Basilicata fanalino di coda (20,20),
ma la stessa Lombardia era ancora ben distaccata al 71,55, e il Veneto
era a 56,37…
L’accordo del 1954 prevedeva una riduzione dei
“differenziali retributivi” con un massimo del 29% tra la
quattordicesima zona e quella più alta (che comprendeva solo il vecchio
“triangolo industriale”, cioè Milano, Genova e Torino).
Tuttavia
nel 1961, al momento della riformulazione del sistema delle zone e
della riduzione dello scarto al 20%, le retribuzioni di fatto avevano
differenziazioni ben superiori a quanto previsto dall’accordo: per la
chimica era ancora la Liguria quella con la media più alta, ma rispetto
al suo 100, c’erano in coda le Marche al 59,06, e il Veneto al 69,41.
Analoghi scarti si riscontravano per altre categorie, e spesso erano in
posizione sfavorita anche alcune delle regioni del nord. (Dati tratti
dalla tabella 12, ricavata da dati INAIL, in: Bruno Broglia, Luciano
Pallagrosi, I salari in Italia dal 1951 al 1962, Editrice sindacale
italiana, Roma, sd, ma 1963).
Insomma anche prima del 1968-1969,
le differenze tra una zona e l’altra erano ben maggiori di quanto
stabilito nella normativa, perché c’erano situazioni (determinate dai
rapporti di forza, e non dalla collocazione geografica o
dall’assegnazione a una determinata zona) in cui c’erano consistenti
premi di produzione, superminimi generalizzati, che accrescevano
notevolmente le differenze retributive.
L’accordo del 1954 e
quello del 1961 volevano congelare e regolamentare la situazione
esistente, senza riuscirci che in parte. Per giunta sfuggiva a ogni
indagine la situazione di una parte del mezzogiorno più arretrato, in
cui gli stessi modestissimi minimi salariali non venivano rispettati.
Io
stesso ho conosciuto, durante l’occupazione delle Fucine Meridionali a
Bari nel 1968, un operaio a cui era stato affidato il compito di fare
gli acquisti collettivi per la mensa degli occupanti, dato che era
abituato a trovare gli spacci più economici e clandestini. La ragione
era che per anni aveva lavorato in una fabbrichetta della provincia,
senza ricevere dal padrone altro che gli assegni familiari (che sono
pagati dallo Stato) e aveva finito per fare un figlio all’anno per
“cavarsela”… Ovviamente sulla busta paga figurava il minimo
contrattuale, che il padrone tratteneva per sé. Per anni ho raccontato
l’episodio come una cosa strana del passato, finché ho scoperto che
questo sistema è tornato in uso, nel basso Salento, ma anche nel
capoluogo in altre città del sud per gli insegnanti regolarmente
abilitati assunti dalle scuole private, e costretti ad accontentarsi
degli assegni familiari se hanno figli, e comunque solo dei punti,
mentre il preside-evasore trattiene tutto quel che figura in busta
paga. Con l’indifferenza più totale dei sindacati, confederali o
autonomi che siano…
Probabilmente non si farà nulla che
assomigli alle vecchie zone salariali. Ma più insidiosa è la
cialtronesca proposta di Sacconi, ripetuta anche da più parti a livello
sindacale, di un “federalismo contrattuale”, che privilegerebbe per gli
aumenti salariali la contrattazione aziendale (oggi difficilissima al
nord come al sud nelle aziende sotto attacco all’occupazione) o una
contrattazione a livello di territorio che è puro fumo e che in nessun
caso intaccherebbe le differenze esistenti. Già all’epoca delle gabbie
c’erano sacche di arretratezza a poche decine di chilometri dalla zona
zero.
CISL e UIL si sono affannate a rifiutare ogni
regolamentazione del sistema salariale fissata per legge, definendola
un metodo degno dell’Unione Sovietica. Eppure lo SMIC in Francia è
definito per legge, e quando c’è una situazione di estrema
frammentazione dei lavoratori, una vertenza generale per strappare un
minimo imposto per legge è assai più realistica di ogni chiacchiera
sulle vertenze territoriali.
La verità è che le vertenze
aziendali negli anni Sessanta sono state preziose per rompere
l’immobilismo stabilito dagli stessi contratti di categoria, per far
vedere che la lotta poteva pagare, per far esplodere le tensioni
latenti (penso al caso della statua del conte Marzotto rovesciata a
Valdagno nell’aprile 1968), ma non erano di per sé risolutive. Per
giunta allora si era una fase di piena occupazione e di
radicalizzazione crescente di nuove leve operaie di origine cattolica,
oggi è praticamente impossibile ripetere quell’esperienza.
D’altra
parte, molti dei risultati dell’Autunno caldo sarebbero stati
impensabili senza la straordinaria forza unificante della lotta contro
le gabbie salariali, che fu retta con tenacia in gran parte delle
regioni penalizzate dalla differenziazione, ma vide nella fase finale
entrare in lotta anche la classe operaia delle tre città della zona
zero (non solo perché al suo interno moltissimi erano provenienti dal
sud). Scioperavano per solidarietà, ma anche per comprensione della
necessità di difendere sé stessi difendendo chi era rimasto nelle
regioni di provenienza. Veniva così smentita la presunta “passività del
sud”, con cui i burocrati per due decenni avevano giustificato i loro
cedimenti e arretramenti, e alimentato una forma blanda di razzismo
antimeridionale.
La lotta per eliminare le gabbie salariali era
stata avviata dai vertici confederali senza molta convinzione, sapendo
che non era risolutiva e non eliminava la maggior parte delle
differenze di fatto. La disponibilità delle confederazioni a trattare
una forte gradualità nell’applicazione era stata confermata d’altra
parte dall’
accordo per le partecipazioni statali (firmato già nel
dicembre 1968), e da un gran numero di accordi separati aziendali, ma
la risposta operaia era stata fortissima, perché appariva, e di fatto
era, una battaglia per la giustizia e l’eguaglianza. La mobilitazione
nel settore privato aveva continuato a crescere e imposto la
proclamazione di uno sciopero generale per il 12 febbraio 1969, il
primo dopo quello che nel 1948 aveva provocato la scissione della CGIL.
Se
ricostruiamo quella fase, si capisce quanto siamo andati indietro nel
corso degli ultimi decenni, non solo con accordi sciagurati che hanno
svenduto conquiste fondamentali come la scala mobile, o con la
passività
confederale di fronte allo smantellamento programmato
delle grandi roccaforti operaie. Non si tratta solo del mutamento dei
rapporti di forza, come si ripete. Questo c’è stato, ma non è un
fenomeno “naturale”, è la conseguenza di errori e complicità.
Quello
che colpisce, e non riguarda solo le grandi confederazioni, ma anche
tutta la sinistra (anche quando sembrava che esistesse, e comunque era
rappresentata nelle istituzioni), è soprattutto l’assenza di qualsiasi
campagna
per contrastare gli argomenti padronali, martellati incessantemente
dalla grande stampa, dalle televisioni, dai governi, da
amplificatissime nullità dei due campi (come Brunetta o Ichino)…
Non
abbiamo formule segrete per ripartire, tranne una: smettere di mentire
e di ripetere le ricette proposte dall’avversario. Non è fatalità
l’accumularsi di sconfitte, ma la conseguenza di una progressiva
cancellazione di tutte le tradizioni di lotta, perfino di ogni ricordo
di come erano state strappate le grandi conquiste del Novecento.
(a.m. 13 agosto 2009)
Appendice: ricostruzione del contesto in cui si sviluppò la lotta contro le gabbie.
(da La rinascita del sindacalismo nel secondo dopoguerra)
Le
lotte del 1968 e la svolta sindacale (…) Un anno prima della data
d’inizio dell’Autunno caldo la lotta contro le “gabbie salariali”, che
penalizzavano i salari nel sud, raggiunge una straordinaria forza di
mobilitazione e spazza via un’altra leggenda diffusa dai riformisti:
“dobbiamo moderare le nostre rivendicazioni perché i lavoratori del sud
sono arretrati, sono influenzati dalla destra, non lottano…”
Per
piegare il padronato ci vorranno in molte province ben 14 giorni interi
di sciopero e quindi di decurtazione di un salario già modestissimo; la
mancanza di strutture sindacali di fabbrica in quasi tutto il sud
rendeva infatti impossibile ogni forma di sciopero articolato o di
poche ore, e imponeva il blocco totale della fabbrica dall’esterno per
24 ore con picchetti formati da operai di altre fabbriche, e
soprattutto da militanti di gruppi rivoluzionari. Nel corso di quella
lotta si gettarono le basi per ricostruire gli organismi sindacali
distrutti da una repressione pluridecennale, ed emersero anche nel
Mezzogiorno nuove generazioni combattive. Alcuni scioperi nazionali a
sostegno della lotta del Mezzogiorno cementarono una nuova unità tra
nord e sud, facilitata d’altra parte dalla massiccia presenza di
lavoratori meridionali nelle fabbriche del nord.
Tuttavia
anche nel sud sintomi importanti di una crescita della combattività
operaia si erano avuti anche in precedenza in alcune lotte aziendali,
in genere come risposta a una provocazione aziendale (è il caso delle
OMECA di Reggio Calabria alla fine del 1967, dell’ATI e delle Fucine
Meridionali di Bari nell’estate 1968). Dopo l’esperienza galvanizzante
della lotta contro le gabbie salariali, si moltiplicarono le lotte di
fabbriche anche piccole per ottenere l’elezione della commissione
interna, qualche aumento salariale, la mensa. Per piegare la resistenza
tenace dei padroni fu necessario in genere il blocco totale dello
stabilimento dall’esterno, a volte di due o tre settimane, ovviamente
possibile solo ottenendo la solidarietà concreta dei lavoratori di
altre fabbriche della zona o dello stesso settore produttivo. In alcuni
casi anche al sud vi furono vertenze su piattaforme avanzate: ad
esempio al Pignone Sud di Bari, uno stabilimento di oltre 1000 tra
operai e impiegati del gruppo ENI, nell’aprile 1969 fu fatto saltare il
cottimo con una lotta tenace che strappò anche il diritto di assemblea
in fabbrica. Per regolare le prime assemblee, molto caotiche, fu eletta
una “presidenza” basata su delegati di reparto revocabili, che di fatto
fu uno dei primi Consigli di fabbrica in Italia.
E’ in questo
quadro che si colloca la vicenda contrattuale del 1969, che assume una
straordinaria importanza per la sincronizzazione del rinnovo dei
contratti delle maggiori categorie dell’industria, che anche per le
ottuse resistenze del padronato erano stati rinviati fino a coincidere
negli stessi mesi del 1969 diventando quel grande avvenimento politico
ricordato come l’Autunno caldo. Si mobilitò un numero senza precedenti
di lavoratori, proprio grazie alla concretezza delle piattaforme, che
avevano al centro consistenti aumenti salariali uguali per tutti, la
riduzione d’orario a 40 ore e la parità normativa tra operai e
impiegati. Quello che è meno noto è che quelle piattaforme furono il
frutto di una battaglia di minoranze consistenti e decise, che
provocarono il capovolgimento dell’atteggiamento delle burocrazie
sindacali.
Basti pensare che nel VII Congresso della CGIL, che
si tenne a Livorno dal 16 al 21 giugno 1969, tutte le proposte che di
lì a poco più di un mese sarebbero state raccolte dai principali
sindacati di categoria furono respinte o rinviate a tempi futuri. Il
segretario generale Agostino Novella aveva ad esempio esplicitamente
respinto nella sua relazione “ogni forma astratta di egualitarismo
salariale” (cioè gli aumenti uguali per tutti
rivendicati dai
rivoluzionari), e aveva rinviato le 40 ore a tempi futuri, proponendo
per giunta che dovessero “articolarsi secondo le situazioni specifiche”
(cioè, in parole povere, dove la forza operaia è troppo grande e i
padroni sono disposti a concessioni, va bene, gli altri si arrangino).
Ogni eventuale riduzione d’orario soprattutto avrebbe dovuto “anche
prendere in alcuni casi forme diverse, strutture diverse”. Il progetto
era spezzettare e lasciar disperdere la forza operaia.
Anche
Vittorio Foa, che rappresentava allora il PSIUP, e più in generale la
“sinistra sindacale”, evitò in quel Congresso di prendere posizione
sulla richiesta semplicissima (e per questo mobilitante) degli aumenti
uguali per tutti e della riduzione secca e immediata d’orario. Molte
voci (dai metalmeccanici di Brescia, dai
siderurgici, dai chimici)
rivendicavano la riduzione immediata alle 40 ore e anzi a 36 ore per
siderurgici, chimici e in genere nei settori con forte nocività
ambientale, ma la “Commissione sindacale” del congresso che doveva
discutere le piattaforme concluse che le 40 ore settimanali dovevano
essere realizzate “anche gradualmente”, eufemismo per dire che dovevano
essere introdotte solo gradualmente e lentamente, come nei contratti
precedenti: nel 1966 si era ottenuta la riduzione di un’ora in tre
anni, mezz’ora nel novembre 1968 e mezz’ora nel maggio 1969, ovviamente
con nessun effetto diretto sull’occupazione.
Sul dibattito nel
congresso si veda: I congressi della CGIL, vol. VIII, Editrice
sindacale italiana, Roma, 1970, tomo I, pp. 66-67, 454 e passim.)
La
logica della frammentazione della forza operaia e dello scaglionamento
della riduzione d’orario per consentire al padronato di prepararsi al
suo riassorbimento, come è noto saltò. Nelle lotte aziendali di cui
abbiamo appena parlato, non solo si erano ottenuti importanti successi
normativi e salariali (spesso inversamente proporzionali per attenuare
le differenze), ma erano emerse nuove direzioni sindacali di fatto in
molte aziende importanti, in genere ancora formalmente all’interno dei
sindacati confederali, ma contrapposte alla loro linea di
collaborazione di classe.
Alla fine di luglio del 1969 una
grande assemblea si riunì al Palasport di Torino per concordare
l’atteggiamento dei rivoluzionari nei contratti e per regolare altre
questioni (ad esempio lì si consumò la rottura definitiva tra il gruppo
dirigente della nascente Lotta Continua e Potere Operaio). La quasi
totalità degli interventi erano caratterizzati da uno schematismo
estremista che escludeva ogni possibilità di un recupero di quelli che
venivano definiti gli “obiettivi operai” da parte delle burocrazie
sindacali, e dava per
liquidato definitivamente il PCI.
Chi
proponeva un’analisi più realista fu accolto freddamente e persino
fischiato quando diceva che gli “obiettivi operai” che tutti
proponevamo non erano veramente “incompatibili con il sindacato”, come
si affermava, e che quindi la burocrazia poteva anche farli suoi.
D’altra parte a degnarsi di leggere gli organi dei partiti riformisti
si potevano cogliere i sintomi di un imminente mutamento, che avvenne
già nello stesso fine settimana in cui si riuniva l’assemblea di
Torino: le assemblee dei delegati metalmeccanici e chimici
raccoglievano la spinta partita dalle avanguardie delle fabbriche più
politicizzate. Erano passate appena sei
settimane dal Congresso della CGIL e la linea decisa in quell’alto consesso veniva bruscamente cambiata.
I
burocrati si erano “convertiti”? Erano stati messi formalmente in
minoranza? Nulla di tutto questo. Ma alcuni clamorosi insuccessi dei
vertici sindacali nelle assemblee di alcune fabbriche importanti,
avevano fatto capire che non avevano più davanti dei gruppetti
ideologizzati e staccati dalla classe, ma quadri operai maturi e
stanchi dei compromessi. In particolare l’assemblea della Borletti al
Cinema Nazionale di Milano (non si era ancora riconquistato il diritto
di assemblea in fabbrica) aveva respinto quasi all’unanimità la
piattaforma ufficiale del sindacato, votando per i forti aumenti uguali
per tutti, le 40 ore subito e la parità completa e immediata
operai-impiegati.
I vertici sindacali, pur avendo ampi settori
di operai meno politicizzati che li seguivano ancora, e pur non essendo
vincolati da quelle assemblee che avevano convocato come “consultive”,
capirono che se volevano
recuperare il controllo della classe
operaia non dovevano lasciar crescere un’opposizione di quel tipo. Così
i contratti ebbero finalmente una piattaforma pagante e consistente, e
mobilitarono milioni di lavoratori, e per il momento le minoranze
rivoluzionarie che avevano proposto quegli obiettivi restarono
spiazzate da quella
giravolta. Le loro critiche ai vertici non
potevano essere comprese dai milioni di lavoratori entrati per la prima
volta in lotta e che erano contenti che “il sindacato” proponesse una
lotta così concreta, senza sapere come e per merito di chi ci si era
arrivati. Il prestigio recuperato consentì poi ai vertici di firmare un
accordo di compromesso, che scaglionava parte delle conquiste nell’arco
dei tre anni. (…)